ARTE E STORIA

La balena del Val di Zena(7 Km)

Nell’ anno 1965, sul versante idrografico sinistro della valle del torrente Zena a pochi chilometri da Pianoro e ad est della vecchia via della Futa sono stati rinvenuti i resti di una balena fossile. La zona si trova all’ interno de cosiddetto “Baccino Intrappenninico bolognese” ai margini dell’ attuale Riserva del Contrafforte Pliocenico.
La microfauna a foraminiferi raccolta in corrispondenza delle ossa della balena permette di datare con precisione il cetaceo al Piacenziano (2 milioni di anni fa).
Nel punto dove la balenottera si spiaggiò oggi sorge una scultura (del prof Davide Rivalta) che riproduce il cetaceo nelle sue reali dimensioni (circa 9 metri di lunghezza).
Lo scheletro della balena è conservato al museo Archeologico di Bologna, insieme a numerosi altri reperti rinvenuti sul territorio, mentre una riproduzione è esposto presso il museo Civico Archeologico “Luigi Fantini” a Monterenzio.

La balena del Val di Zena

 Museo della preistoria (KM 13,1)

Il Museo della Preistoria “Luigi Donini” di San Lazzaro di Savena illustra due fra le più significative realtà del territorio: l’ambiente inteso come insieme di valori naturalistici e paesaggistici, al cui centro si situano gli affioramenti dei Gessi Bolognesi, e le testimonianze del primo popolamento umano.

Museo della preistoria

La civiltà Villanoviana (MUV:17 km)

Villanoviano è il nome convenzionale e moderno di un’ aspetto culturale protostorico, definito sulla base delle caratteristiche dei resti materiali. Il nome deriva dalla località di Villanova, frazione del comune di Castenaso in provincia di Bologna (MUV: Museo della Civiltà Villanoviana) dove, fra il 1853 ed il 1855, Giovanni Gozzadini (1810-1887) ritrovò i resti di una necropoli, portando alla luce 193 tombe ( di cui 179 ad incinerazione e 14 ad inumazione).
Oggi questo termine continua ad essere utilizzato per indicare la cultura della prima età del ferro italiana, che caratterizza non solo la pianura padana, ma l’ italia centrale tirrenica (Toscana , alto Lazio) e alcune località della Campania e del versante adriatico centro-settentrionale (Verrucchio nel riminese e Fermo nelle marche). Un territorio vasto, dove si verifica, a partire almeno da IX secolo a.C il passaggio da un’ organizzazione per piccoli villaggi sparsi nel territorio, tipica dell’ età del bronzo, alla nascita delle grandi città come Veio, Cerveteri, Tarquinia, Velci, Chiusi e Vetulonia, ciascuna con un proprio territorio punteggiato di centri minori.
In ambito padano questo processo si concretizza con la nascita di Bologna, che diventa il punto di riferimento di un territorio che conprende tutta l’ emilia centrale e parte di quella occidentale, tra Reggio Emilia e Imola, dove si sviluppano numerosi insediamenti ad essoa collegati.

La civiltà Villanoviana

La città etrusca di Kainua Marzabotto e il museo nazionale etrusco Pompeo Aria (20,5 Km)

Il Museo Nazionale Etrusco è intitolato alla memoria del Conte Pompeo Aria che sulle orme del padre Giuseppe organizzò il primo nucleo della collezione. Sorge sul margine dell’ampia area archeologica, interamente di proprietà dello stato. È proprio la consistenza dei resti strutturali di questa antica città a fare del sito un caso unico nel panorama dei centri abitati etruschi. A differenza di altre città etrusche -come ad esempio l’antica Felsina che dall’antichità ad oggi fu popolata senza soluzione di continuità- qui l’abbandono del sito garantì la conservazione quanto meno dell’impianto urbano nel suo disegno originale, cosa che ci consente ancora oggi di percorrere le antiche strade lungo le quali si snodano case di abitazione, aree artigianali ed edifici sacri.

-Museo nazionale etrusco Pompeo Aria

Acropoli: podio dell’edificio sacro

In assenza di notizie dagli autori greci e latini si ignora lo stesso nome di questo centro, la cui importanza emerge per altro evidente dalla ricca documentazione archeologica. Rinvenimenti di resti murari e reperti di vario tipo risalgono alla fine del XVIII secolo ma le prime scoperte significative si avranno solo alcuni decenni più tardi, in occasione dei lavori per la sistemazione a parco dell’area attorno alla villa, entrata a far parte delle proprietà della famiglia dei conti Aria nel 1831. Dal 1862 in poi si cimentarono negli scavi della città illustri archeologi dell’epoca da Gozzadini a Chierici fino a Brizio cui si deve, in particolare, la prima sistemazione in vetrine dei materiali all’interno della Villa Aria nonché la prima guida al museo e ai resti archeologici. Con l’acquisizione allo Stato dell’area archeologica nel 1933 il museo fu trasferito nell’attuale sede, nel pianoro di Misano, e l’assetto espositivo che oggi vediamo è quello del 1979, arricchito dai risultati degli scavi condotti con regolarità dagli anni cinquanta in poi.

Museo Civico Archeologico “Luigi Fantini” (17,2 Km)

Il Museo “Luigi Fantini” di Monterenzio documenta la storia del popolamento delle valli dell’Idice e dello Zena ed espone i materiali che, a partire dagli anni ottanta, sono stati recuperati nelle campagne di scavo dell’insediamento etrusco-celtico di Monte Bibele.
L’esposizione, che conserva la più completa raccolta di materiali celtici della regione e una delle più importanti in Italia, è arricchita dalla ricostruzione al vero dell’impalcato ligneo di una casa dell’abitato di Pianella di Monte Savino, arredata con oggetti autentici o riproduzioni che consentono di illustrare molti aspetti della vita quotidiana del villaggio. . Nel museo vengono ricostruite la storia e le vicende di questo centro e del territorio circostante. Il percorso museale si articola in un ampio atrio e in quattro sale, mentre lo spazio centrale è occupato dalla ricostruzione, a grandezza naturale, di una struttura abitativa del villaggio di Monte Bibele. Nell’atrio pannelli e foto illustrano le vicende delle scoperte archeologiche che hanno interessato il territorio e debito risalto viene dato alla figura di Luigi Fantini (1895-1978), ricercatore e speleologo bolognese, cui è dedicato il Museo. La prima sala offre una scelta dei principali reperti che testimoniano le tappe dell’antropizzazione di questo settore appenninico, dalle prime fasi della preistoria al periodo romano. L’età etrusca è documentata dai numerosi bronzetti votivi e dalle ceramiche miniaturistiche della stipe votiva di Monte Bibele. La seconda sala è occupata da materiali dell’abitato di Pianella di Monte Savino, di cui si ricostruiscono la vita quotidiana, le attività produttive e le relazioni commerciali. Nella terza e quarta sala vengono presentati i ricchi corredi della necropoli di Monte Tamburino: spade, foderi, elmi, vasellame ceramico e bronzeo, pregevoli oggetti ornamentali, cui si affiancano specchi, strigili, ecc. . Nelle ultime vetrine sono esposti alcuni materiali recuperati nelle recenti indagini archeologiche effettuate a Monterenzio Vecchio, dove è stata individuata un’altra ricca necropoli, coeva a quella di Monte Bibele.

-Museo Civico Archeologico “Luigi Fantini”

Monte Bibele (18,6 Km)

Monte Bibele

Insediamento etrusco- celtico di monte bibele, scoperto nei primi anni Sessanta del Novecento, l’insediamento sorto nel cuore dell’Appennino fra la metà del IV e gli inizi del II secolo a.C. Qui, un trentennale programma di indagini archeologiche, promosse dal Comune e dirette dal Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna, in collaborazione con alcune prestigiose istituzioni europee, ha messo in luce i resti di un grande villaggio impostato su terrazzamenti artificiali in località Pianella di Monte Savino e costituito da circa cinquanta abitazioni a vano unico, con muri perimetrali realizzati in blocchi e lastre di arenaria, alcune delle quali ancora parzialmente visibili in alzato. L’insediamento, che appare caratterizzato nel suo versante meridionale da una capiente cisterna per l’acqua ad uso collettivo, presenta segni visibili di una radicale distruzione avvenuta fra la fine del III e lo scorcio iniziale del II secolo a.C., probabilmente in concomitanza con l’affacciarsi di truppe romane in area bolognese e con la serie di eventi bellici che condussero nel breve volgere di alcuni anni alla fondazione di Bononia e all’apertura di due strade consolari – formidabili assi di penetrazione verso il nord – come la via Emilia e la Flaminia minor. Fondato dagli Etruschi, il sito di Monte Bibele fu da essi popolato con successive integrazioni da parte di elementi di origine celtica risalenti al momento della discesa dei Galli Boi nella pianura padana. Su una cima attigua all’abitato (Monte Tamburino) sono stati scoperti i resti della sua ampia necropoli, composta di oltre centosessanta sepolture con i relativi corredi, mentre una terza culminazione del massiccio di Monte Bibele ospita un’area all’aperto con funzioni sacrali. La documentazione archeologica è completata dal rinvenimento di un deposito votivo etrusco ricollegabile all’esistenza di uno dei molti santuari appenninici per il culto delle acque salutari, attivo probabilmente a partire dagli inizi del V secolo a.C. La stipe ha restituito quasi duecento bronzetti ex voto a figura umana e una grossa quantità di ceramiche, molte delle quali di formato miniaturistico.

Monte Bibele

Città Romana di Claterna (12 Km)

Claterna

La città romana di Claterna (a Ozzano Emilia) la cui fondazione risale approssimativamente al II sec. a.C raggiunse dimensioni pari o superiori a quelle di Bononia (Bologna) e di Forum Cornelli (Imola) per poi scomparire, misteriosamente, intorno al IV secolo d.C. Sorse sulla via Emilia all’ intersezione con l’ attuale torrente Quaderna e l’ antica Flaminia “minore” (o Flaminia militare ). Claterna ricordata da Cicerone, venne occupata militarmente nel 43 a.C dal console Lisio. La città prosperò grazie alla posizione sulla via Emilia e al punto di discesa orientale della Flaminia “minor”. Tra il III e IV secolo d.C iniziò la sua decadenza, tanto che S. Ambrogio nel IV secolo la annovera tra le “città morte”, da cui depredare materiali per scopi edilizi.
Grazie all’impegno dell’ associazione culturale “Civitas Claterna”, nata per valorizzare l’ antica città romana di Claterna, anche i non addetti ai lavori possono partecipare alle attività di scavo e vivere l’esperienza di recupero, riscoperta e divulgazione del patrimonio storico-archeologico.
Il piccolo museo ospita i materiali recuperati negli scavi eseguiti tra la fine dell’ ottocento e gli anni 60 del novecento.

Città Romana di Claterna

Via Flaminia Minor

La via Flaminia minor è una antica strada romana, costruita dal console Gaio Flaminio nel 187 a.C. tra Bononia (Bologna) ed Arretium (Arezzo), la cui esistenza ci è unicamente tramandata da Tito Livio. Il nome Flaminia minore o secunda o altera o Flaminia militare, è stato assegnato dagli studiosi per distinguerla dalla via Flaminia tracciata nel 220 a.C. dal padre di Gaio Flaminio, Gaio Flaminio Nepote, per collegare Roma con Rimini. Il tratto compreso tra il passo della Futa ed il paese di Madonna dei Fornelli è anche noto come strada romana della Futa o strada della Faggeta.
La costruzione della strada è contemporanea a quella della via Emilia voluta da Marco Emilio Lepido; il suo scopo era quello di istituire una rete stradale (insieme alla via Emilia) per permettere veloci collegamenti con Ariminum (Rimini) e Arretium (Arezzo), rendere sicuri e stabili i territori emiliani e romagnoli dopo la loro conquista ai danni dei Celti e controllare, inoltre, la dorsale appenninica occupata dalle tribù liguri.

Nell’agosto del 1979 Franco Santi e Cesare Agostini, due archeologi amatoriali originari di Castel Dell’Alpi che sulla base delle testimonianze orali si erano messi alla ricerca della strada, hanno riportato alla luce il primo tratto di basolato (il tipico selciato romano) nascosto sotto circa 60 cm di terra e foglie accumulatesi nei secoli alle pendici del Monte Bastione, alcuni chilometri a nord del passo della Futa, aprendo un periodo di studi, dibattiti ed ulteriori scoperte archeologiche. Si tratta di un ritrovamento particolare anche in relazione al fatto che generalmente i romani utilizzavano il basolato solamente per le strade urbane, mentre quelle extraurbane erano solitamente con il “glareum”, cioè l’odierna strada bianca in ghiaia. L’ipotesi di Santi e Agostini è che trattandosi di un passo appenninico, i romani avessero deciso di realizzare una pavimentazione solida per garantire la transitabilità in tutti i periodi dell’anno.

“… successivamente la guerra fu portata contro i Liguri Apuani, che avevano devastato la campagna di Pisa e di Bologna. Domati anche costoro, il console concluse un accordo di pace con le popolazioni confinanti. In conseguenza di ciò, dato che aveva fatto in modo che la provincia fosse assolutamente libera da ogni pericolo di guerra, Caio Flaminio, per non tenere nell’ozio i soldati, fece loro costruire una via da Bologna ad Arezzo”. Tito Livio, Storia di Roma, Libro XXXIX, cap. 2

Il Museo di Arti e Mestieri di Pianoro (1,4 Km)

Sorge al limitare dell’abitato, in posizione pedecollinare, tra il parco del Genepreto, l’area della piscina comunale e il parco della Bocciofila, in località Gualando, una zona dove un tempo esistevano alcuni poderi agricoli e le loro case coloniche.
In una stalla/fienile di fine ‘800, sono conservati ed esposti documenti materiali della passata civiltà contadina ed artigianale delle vallate del Savena, Setta e Idice, oltre 1800 dei quali donati dal collezionista pianorese Pietro Lazzarini (un cittadino pianorese, che in anni di paziente e appassionata ricerca ha raccolto un patrimonio di oggetti che documenta, pressoché interamente, l’attività umana di una comunità del territorio collinare della valle del Savena tra fine ‘800 e primi decenni del ‘900).
Il restauro dell’edificio ha restituito al suo stato originale il corpo centrale, la stalla con 10 poste dal soffitto a volta e pavimento in mattoni e adattato a spazi espositivi le superfici accessorie e il sovrastante fienile.
L’allestimento, organizzato per ricostruzione storica di ambienti e per tipologia di oggetti, propone una lettura volta a trasmettere le tradizioni, i modi di vita e la lingua della comunità.
Il percorso espositivo, strutturato secondo tre filoni tematici, “la casa rurale”, “le attività artigianali” e “i lavori agricoli”, suddivisi ciascuno in varie sezioni, è incentrato sulle attività lavorative della donna e dell’uomo.

Museo di Arti e Mestieri di Pianoro

Museo Marconi, Mausoleo Marconiano, Villa Griffone (14,3 Km)

Il Museo Marconi, dedicato alle origini e agli sviluppi delle radiocomunicazioni, ha sede presso Villa Griffone, residenza della famiglia di Guglielmo Marconi, nella quale il giovane inventore ha realizzato i suoi primi esperimenti.
Assai danneggiata da eventi bellici, specie all’interno, la villa appartiene oggi alla Fondazione Marconi. Il mausoleo fu costruito negli anni 1940-41 su progetto dell’architetto Marcello Piacentini.  Il busto marmoreo di Guglielmo Marconi è opera dello scultore Arturo Dazzi.

Grazie all’integrazione di apparati storici, ipertesti, filmati e dispositivi interattivi, il visitatore ha la possibilità di ripercorrere le vicende che hanno caratterizzato la formazione e la vita dell’inventore con un’attenzione particolare per il periodo che va dal 1895 (primi esperimenti di telegrafia senza fili) al 1901 (lancio del primo segnale radio attraverso l’Atlantico).

Il museo ospita una serie di accurate ricostruzioni funzionali di apparati scientifici dell’ottocento collocate in diverse “isole espositive” dedicate ad alcune tappe fondamentali della radio dell’elettricità, ai precursori della storia della radio, alle applicazioni marittime dell’invenzione marconiana. Il percorso prosegue accompagnando il visitatore attraverso alcuni fondamentali sviluppi delle radiocomunicazioni nel XX secolo, in particolare il passaggio della radiotelegrafia alla radiofonia e alla radiodiffusione. In mostra sono inoltre presenti interessanti documenti relativi alla formazione di Guglielmo Marconi (esposti nella celebre “stanza dei bachi”) e alla sua attività di imprenditore nella Compagnia egli fondò nel 1897 e che tutt’ora porta il suo nome.

La visita guidata si divide in 4 parti:

  1. Introduzione sull’invenzione della telegrafia senza fili e proiezione di un filmato di circa 20 minuti sulla storia delle radiocomunicazioni.
  2. Visita del laboratorio del giovane Marconi e della sezione multimediale del Museo (con diversi CD-Rom e dispositivi interattivi).
  3. Presentazione di apparati d’epoca in funzione.
  4. Conclusione libera in giardino (si consiglia una sosta al Mausoleo) con possibilità di acquistare materiale nel bookshop del Museo.

Tra le attività che il museo promuove vi è un programma di divulgazione scientifica per le scuole che si avvale di un laboratorio di esperimenti didattici relativi alla storia dell’elettricità, all’elettromagnetismo e alle telecomunicazioni.

Villa Griffone, luogo di origine delle radiocomunicazioni, attende i suoi visitatori con il fascino della leggenda e le più moderne modalità espositive. Villa Griffone ospita, oltre al Museo Guglielmo Marconi e alla Fondazione, Guglielmo Marconi, anche un centro di ricerca sulle radiocomunicazioni nel quale operano ricercatori del dipartimento di Elettronica, Informatica e Sistemistica dell’Università di Bologna e della Fondazione Ugo Bordoni. Anche per questa ragione la Villa non è dotata di un punto di ristoro né di servizi per i visitatori.

Museo Marconi

Guglielmo Marconi

Il marchese Guglielmo Marconi (Bologna, 25 aprile 1874 – Roma, 20 luglio 1937) è stato un fisico e inventore italiano. È conosciuto per aver sviluppato per primo un efficace sistema di comunicazione con telegrafia senza fili via onde radio che ottenne una notevole diffusione: evoluzioni di tale sistema portarono allo sviluppo dei moderni sistemi e metodi di radiocomunicazioni in telecomunicazioni come la televisione, la radio, e in generale tutti i sistemi che utilizzano le comunicazioni senza fili.
Anche altri scienziati ed inventori hanno contribuito all’invenzione della telegrafia senza fili o hanno effettuato esperimenti simili negli stessi anni, come ad esempio Heinrich Hertz nel 1886, Nikola Tesla nel 1893, Carl Ferdinand Braun, Thomas Edison, Aleksandr Popov ed altri, ma gli esperimenti di Marconi portarono alle prime applicazioni commerciali su vasta scala della telegrafia senza fili.

Il museo della winter line di Livergnano (8,9 Km)

Da Nelle Valli Bolognesi, autunno, di Lorenzo Fazio.

Situato nel cuore della piccola Livergnano, questo luogo vanta una nutrita collezione di oggetti risalenti alla seconda guerra mondiale. Da vecchie radio ad elmetti, passando per borracce e posate, non manca proprio nulla che non possa attirare l’attenzione di appassionai di storia e materiale militare.
Tuttavia qui non c’è coda per entrare, né biglietto da pagare, tanto meno percorsi didattici supportati da video e decine di didascalie generose di dettagliate informazioni. Tutto ciò che il museo ha da offrire si trova un po’ alla rinfusa su lunghi tavoli di legno o dentro affollatissime teche di vetro ben illuminate. Ci si guarda intorno spaesati e perplessi, non ritrovando nessun riferimento appreso in anni di visite guidate e mostre sparse per l’Italia e il mondo. Poi si ritrova la calma e si comprende, o per meglio dire si conosce, lo spirito che anima e da un senso al tutto.
Umberto Magnani non è solo il direttore, curatore non che tutto fare del museo: ne rappresenta anche l’essenza stessa. Per conoscere bisogna chiedere, ci insegnano a scuola, e nella piccola Livergnano bisogna fare proprio così. Non ci sono indicazioni esatte, né un ampia incisione che distingua The Winter Line Museum da una casa qualunque: bisogna fermarsi e domandare agli autoctoni per trovarlo. Non esistono didascalie che cataloghino per esattezza cosa si sta guardando e come funzionasse: se si vuole conoscere basta chiedere ad Umberto, che dopo un po’ abbandona i convenevoli e inizia a raccontare con un entusiasmo che nessuna parola scritta o video in alta definizione saprebbe regalare. Tutt’un tratto più che in un asettico museo, ci si trova in una stanza piena di oggetti che raccontano le storie più disparate. Molte di queste, Umberto le conosce e non perde occasione per enunciarle, indicando ora una vecchia bottiglia di Coca Cola, ora un proiettile di cannone semiesploso, saltellando di continuo lungo la timeline che compone l’intricata storia bellica della piccola, e solo apparentemente oziosa, Livergnano. Sono storie per lo più tragiche, ma che costringono comunque a qualche sorriso, vuoi per un aneddoto simpatico diluito nel dramma, vuoi per l’abilità con cui Umberto conduce la narrazione.
Quando la visita guidata, emozionale più che fisica, termina, si guarda con occhi diversi allo stanzone in cui è racchiuso The Winter Line Museum e al piccolo borgo che lo ospita. Ci si chiede come sia possibile che in una località così piccola possano essere accadute così tante cose e come, nonostante una serie di riconoscimenti internazionali, il museo di Umberto fatichi ancora a ricevere l’attenzione e gli aiuti statali che pur meriterebbe.
Al di là di tutto, resta comunque la qualità dell’esperienza che questo piccolo museo sa regalare. Un’esperienza sicuramente indimenticabile per chi quella guerra l’ha vissuta o lungamente studiata, utile a chi invece vuole scoprirla partendo da un posto vicino a casa propria.

Il museo della winter line di Livergnano

La Linea Gotica

La Linea Gotica (in tedesco Gotenstellung, in inglese Gothic Line) fu la linea difensiva istituita dal feldmaresciallo tedesco Albert Kesselring nel 1944 nel tentativo di rallentare l’avanzata dell’esercito alleato comandato dal generale Harold Alexander verso il nord Italia. La linea difensiva si estendeva dalla provincia di Apuania (le attuali Massa e Carrara), fino alla costa adriatica di Pesaro, seguendo un fronte di oltre 300 chilometri sui rilievi delle Alpi Apuane proseguendo verso est lungo le colline della Garfagnana, sui monti dell’Appennino modenese, l’Appennino bolognese, l’alta valle dell’Arno, quella del Tevere, per finire poi sul versante adriatico negli approntamenti difensivi tra Rimini e Pesaro . I tedeschi battezzarono inizialmente questa linea con il nome di “Linea Gotica”. Per volere dello stesso Adolf Hitler, che temeva le ripercussioni propagandistiche se il nemico avesse sfondato una linea dal nome così altisonante, si decise poi di ribattezzarla “Linea Verde” (“Grüne Linie”), anche se nella storia, e soprattutto in Italia, questa linea difensiva continuò ad esser conosciuta con il nome di “Gotica” . Il feldmaresciallo Kesselring intendeva così proseguire la sua tattica della “ritirata combattuta”, già attuata dai tedeschi fin dai primi sbarchi alleati in Sicilia, per infliggere al nemico il maggior numero di perdite, in modo tale da rallentare e addirittura fermare l’avanzata angloamericana verso nord, difendendo la Pianura Padana e quindi l’accesso all’Europa settentrionale, attraverso il Brennero, e l’accesso all’Europa centrale attraverso Trieste . Sfruttando il terreno montuoso, Kesselring poté concentrare le sue truppe sulle direttrici e sui pochi valichi appenninici che le colonne alleate avrebbero potuto percorrere, impedendo per molti mesi all’esercito angloamericano composto dall’8ª armata inglese e dalla 5ª armata americana di avanzare in modo significativo verso l’Emilia-Romagna. La Linea Gotica cedette nel settembre 1944 sul settore adriatico nel corso della operazione Olive mentre resistette nella parte centrale, cedendo solo il 21 aprile 1945 a seguito dell’offensiva di primavera Alleata. Infliggendo agli attaccanti gravi perdite e permettendo all’esercito tedesco di resistere fino al decisivo sfondamento delle fortificazioni pochi giorni prima della resa incondizionata delle truppe tedesche in Italia, la Linea Gotica trasformò paradossalmente l’ultimo fronte italiano di una guerra ormai perduta in una “vittoria difensiva” tedesca .

Linea Gotica

Marzabotto – Parco di Monte Sole (30km)

Il Parco Storico di Monte Sole ricopre quasi interamente l’area coinvolta nell’eccidio di Monte Sole del 1944, quando la violenza nazifascista portò in queste terre la morte per centinaia di inermi civili, anziani, donne e bambini.
Proprio per mantenere viva la memoria di questa storia drammatica, delle vicende della Brigata Partigiana Stella Rossa, delle distruzioni apportate dalla guerra, nel 1989, con la L.R. 19, è stato istituita questa Area Protetta, il cui principale obiettivo, oltre alla tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale, è la diffusione di una cultura di pace rivolta soprattutto alle giovani generazioni.
Il Parco copre un’area di circa 6.300 ettari compresa nel territorio dei Comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi, i quali uniti alla Provincia di Bologna, al Comune di Bologna, alle Comunità Montane n. 10-Alta e Media Valle del Reno e n. 11-Cinque valli Bolognesi costituiscono il Consorzio di Gestione del Parco.

Marzabotto – Parco di Monte Sole

Cimitero militare tedesco del Passo della Futa (50km)

Il cimitero militare tedesco del Passo della Futa si trova fra Bologna e Firenze, nelle immediate vicinanze dell’autostrada che collega le due città; quando lo si raggiunge si rimane particolarmente colpiti dal paesaggio che ci circonda, soprattutto immaginando che quelle montagne furono teatro di sanguinose battaglie e lì morirono migliaia di uomini.

Cimitero militare tedesco del Passo della Futa

Santuario della Beata Vergine delle Grazie di Boccadirio (50km)

Il Santuario della Beata Vergine delle Grazie di Boccadirio (o semplicemente Santuario di Boccadirio) è situato in frazione Baragazza nel comune di Castiglion dei Pepoli, in provincia di Bologna, nella zona di confine con la Toscana.
È, per importanza, il secondo santuario della diocesi bolognese, dopo il santuario della Madonna di San Luca, a Bologna.

Santuario della Beata Vergine delle Grazie di Boccadirio

Santuario della Madonna di San Luca (17km)

Il Santuario della Madonna di San Luca è un santuario (dedicato al culto cattolico mariano) che si eleva sul Colle della Guardia, uno sperone in parte boschivo a circa 300m s.l.m. a sud-ovest del centro storico di Bologna. È un importante santuario nella storia della città di Bologna, fin dalle sue origini meta di pellegrinaggi per venerare la sacra icona della Vergine col Bambino detta “di San Luca”. Il santuario è raggiungibile da porta Saragozza attraverso una lunga e caratteristica via porticata, che scavalca via Saragozza con il monumentale Arco del Meloncello (1732) per poi salire ripidamente fino al santuario.

Santuario della Madonna di San Luca

Pieve del Pino (7,6 Km)

L’origine della chiesa

Si perde nella notte dei tempi.
La Pieve di S. Ansano al Pino figura fra le 44 pievi della Diocesi di Bologna, confinante con le parrocchie direttamente dipendenti dalla Cattedrale e con il plebanati di Pontecchio, Panico, Barbarolo e Gorgognano (verso Zena).
Il primo elenco, fortuito, dei plebanati della Diocesi di Bologna risale al 1300 e fornisce il nome di ben 28 chiese soggette alla Pieve di S. Ansano al Pino; corrispondono alle parrocchie attuali, compresi i rispettivi oratori ora in parte scomparsi. Si andava da Sabbiuno a Monte Rumici, dal Reno al Savena compreso Rastignano e Pianoro, allora Riosto. Nei tempi più antichi si chiamò soltanto S. Ansano. È opinione degli studiosi che fosse antichissima; un documento del 1056, riportato dal Muratori, ne attesta per primo la sua esistenza. Si riferisce alla liberazione della schiava Clarizia da parte della contessa Willa, avvenuta nella chiesa di Musiano e officiata da Don Benzo di S. Ansano.
Una constatazione interessante: gran parte delle chiese della Toscana dedicate a S. Ansano portano il nome di Pieve. Ora le Pievi sono generalmente le chiese più antiche, dove si amministrava il Battesimo, si svolgevano le celebrazioni più importanti, si seppellivano i morti per tutto il plebanato. In esse l’Arciprete aveva giurisdizione vicaria, a nome del Vescovo, per tutte le parrocchie facenti capo alla Pieve. Alla Pieve di S. Ansano al Pino ciò è comprovato dal quadro dell’abside (1620) che affianca a S. Giovanni Battista, il battezzatore di Gesù, S. Ansano Battista di Siena. Le Pievi si fanno risalire al sec. IV-VI, cioè dopo che l’editto di Costantino (313 d.C) aveva concesso ai cristiani di organizzarsi pubblicamente.

Pieve del Pino

La pieve e la seconda guerra mondiale

La seconda guerra mondiale ha infierito particolarmente su Pieve del Pino. La “linea gotica” che l’esercito tedesco aveva approntato, fortificando l’Appennino tosco-emiliano, ha ceduto inaspettatamente sul finire dell’estate del ’44 al passo della Futa. Gli americani, seguendo – particolare interessante – il crinale dell’antica strada romana, hanno aggirato rapidamente le linee tedesche, prendendo alle spalle, uno dopo l’altro, i paesi di Bruscoli, Pian del Voglio, Montefredente e Qualto. Da Madonna dei Fornelli, proseguendo agevolmente lungo la “via Romana antica” (189 a.C), sono passati da Cedrecchia, le Croci, monte Venere e Monzuno.

Chiesa di Musiano (1,6 Km)

Musiano è un borgo antichissimo dove sorgeva l’Abbazia di S. Bartolomeo, della proprietà della Curia di Bologna. Nell’antico recinto (distrutto nell’ultimo conflitto) vi era un’antico pozzo, tutt’ora presente e recentemente restaurato.  Tale Abbazia e relativa chiesa vennero erette poco prima del 981 dai conti Adalberto e Bertilia. Molte furono le donazioni, fra cui quella del Marchese Bonifacio di Toscana, padre di Matilde di Canossa. Nel 1307 si insediarono i monaci Benedettini e nel 1493 i monaci Celestini, che vi rimasero fino al 1652. Durante l’ultimo conflitto venne distrutto tutto il complesso e ricostruito in parte nel 1950.

Chiesa di Musiano

L’idria delle nozze di Cana

Si tratta di un prezioso manufatto, un bianco vaso di marmo pario (o alabastro), di squisita ed elegante lavorazione, risalente, per la sua perfezione, secondo gli studiosi, all’epoca augustea. L’idria è posta nella chiesa subito a destra, entrando dalla porta principale, accosto al muro laterale, in basso, su un supporto che la tiene verticale, in modo che, abbassandosi, si possa introdurre in essa il capo. Essa ha il fascino dell’arcano e del mistero, il volto dell’arte, il senso della classicità, il sapore della bellezza e dell’eleganza, il candore del marmo pregiato e in quanto tale non può non stimolare la curiosità dell’osservatore. Davanti ad essa sostò anche il padre predicatore missionario apostolico San Leonardo da Porto Maurizio, qui celebrò la S. Messa e venerò l’idria, ritenuta uno dei pezzi originali di cui si parla nelle nozze di Cana (Vangelo S. Giovanni cap.2 vv. 1-11).

La Chiesa di Riosto (4,4 Km)

La chiesa dedicata a S. Maria Assunta conteneva tele e cimeli di notevole pregio e valore. Tuttavia l’antichità di Riosto ci è testimoniata soprattutto dalle scoperte che la chiesa diede. Dietro la sagrestia si rinvenne un’urna contenente ossa a due medaglie appartenenti al periodo repubblicano; nel muro sempre dietro la sagrestia venne alla luce uno scheletro umano con elmo e armi e un cane in bronzo di notevole fattura. Dietro l’Altare maggiore si scoprì una vecchia porta sul cui architrave vi era un’aquila ed una scritta in caratteri greci “Non si entra nel tempio se non a piedi scalzi e col capo coperto di cenere”. La guerra però ha raso al suolo tutto, lasciando solo macerie di queste preziose testimonianze. La famiglia dominante erano i da Riosto chiamati poi Ariosti o Ariosto. Avevano qui il loro castello che sorgeva a ponente della chiesa parrocchiale. Tutto è andato distrutto ed ora sono visibili solo i resti della torre rotonda. L’antica chiesa di Pianoro, era situata in alto, vicino all’attuale Podere Riosto. I ruderi, tutt’ora conservati, possono darci una precisa informazione della sua struttura e della sua forma iniziale.

Chiesa di Riosto

Castel de Britti (19,4 Km)

Sulle prime colline bolognesi, sul versante destro del fiume Idice, sorge in posizione dominante l’antico borgo fortificato di Castel de’ Britti.  Situato nel cuore del Parco dei Gessi e dei calanchi dell’Abbadessa, tra le località del parco è quella di più antica memoria; appartenuto a Matilde di Canossa e poi passato a Bologna, venne distrutto e ricostruito varie volte, a testimonianza della sua importanza strategica, sino a decadere definitivamente dopo il secolo XV.

Ancora oggi restano tracce delle mura, un arco di entrata diroccato e la chiesa, di origine trecentesca, dedicata a S. Biagio.
La rupe selenitica sulla quale sorge l’antico borgo di Castel de’ Britti offre l’opportunità di osservare alcune peculiarità legate alla roccia gessosa, la cui struttura cristallina risalta negli affioramenti che circondano il piazzale antistante la chiesa di S. Biagio. Nell’area compresa tra la chiesa e via Piombarola si trovano due doline e due piccole valli cieche, che rappresentano i punti di assorbimento più importanti di un piccolo sistema carsico sotterraneo. Sino a oggi sono note 10 cavità minori e una grotta principale, denominata Risorgente di Castel de’ Britti, che si apre ai piedi della rupe. All’interno della cavità, che ha una lunghezza di oltre 200 m, scorre un rio sotterraneo che si attiva tumultuosamente durante i periodi piovosi. Il ritrovamento di una stazione dell’età del Bronzo testimonia che la località è stata frequentata sin dalla preistoria.

Castel de Britti

Santa Maria di Monte Armato (17,2 Km)

Davanti agli occhi del visitatore la magnifica chiesa romanica di S. Maria di Monte Armato, che le generose mani dell’ing. Fiorini, proprietario del podere, hanno riportato al suo antico splendore dopo i tragici bombardamenti del 1944/45.
La chiesa, d’impianto romanico, è dotata di campanile con due coppie di bifore sovrapposte al centro delle quali vi sono due colonne con capitelli simili a quelli che si trovavano nell’antica chiesa di Pastino; oggi trasferiti a S. Pietro di Ozzano. All’interno, nella parete di sinistra, una lapide di arenaria, ormai completamente sgretolata, ricorda i restauri operati dal canonico Lorenzo Grassi nell’anno 1460; mentre sull’altare maggiore un crocefisso recente sostituisce una più antica opera, scomparsa sotto le macerie, raffigurante una Pietà. Annessa alla chiesa sorgeva un tempo un’abbazia fortificata: con corte chiusa o chiostro, di cui oggi restano visibili solo alcuni ruderi e testimonianze storiche negli archivi. La più antica memoria dell”‘Abbadia” si fa risalire al 1129; anno in cui l’abate Giovanni di S. Maria di M. Armato e l’abate Guido del monastero di S. Stefano di Bologna si accordano per la spartizione dei beni della chiesa di S. Giovanni di Valle Lambro. Per tutto il XII-XIII-XIV secolo l’“Abbazia di Monte Armato” fu certamente la più importante del territorio, così come dimostrano gli innumerevoli carteggi archivistici attestanti le varie assegnazioni quali: l’Ospitale Sallustre nel 1174, l’Ospitale di S. Giorgio nel 1161, l’Ospitale di Stenperato nel 1197. A queste si aggiungevano, come confermano gli estimi del 1315 e 1385, le svariate proprietà fondiarie poste nella zona.

La Chiesa di Campeggio (32,8 Km)

Monte Canda, Passo Raticosa, al centro, Monte Rocca.

Adagiata a mezza costa alla sinistra del corso superiore dell’Idice, là dove la vallata appenninica si apre a ventaglio, offrendo l’inconsueto panorama di un tinteggiato tutto verde e rotto appena da eleganti tornanti, sorge Campeggio, Parrocchia e Santuario Mariano. Già citata nell’elenco delle chiese del ‘300, ha come patrono S. Prospero. L’attuale edificio fu completamente ristrutturato nel 1884-1888, mentre il campanile risale alla fine del XVIII secolo; all’interno e all’esterno sono presenti delle statue di N. De’ Carli. All’interno la riproduzione della grotta di Lourdes voluta da Don Augusto Bonafè nel 1923. Il terremoto che colpì con particolare violenza il territorio di Monghidoro nel 2003 non risparmiò la chiesa di Campeggio: grazie ad un attento intervento di recupero e di messa in sicurezza oggi la chiesa, con la sua armonica facciata che si apre sull’alta valle dell’Idice, è tornata ad essere un nodo della vita spirituale della montagna.
“La Piccola Lourdes Bolognese”

La Chiesa di Campeggio

Santuario della Madonna dei Boschi (26,1 Km)

Edificato nel 1685 dai fratelli Giovanni e Simone Prosperi. All’interno tra le molte opere si notano in particolar modo l’immagine della Madonna di S. Luca (ritenuta miracolosa) e due statue raffiguranti i santi Pietro e Paolo scolpite nel 1785 dall’artista bolognese Antonio Gambarini (seconda metà del sec. XVIII-1787); l’organo della chiesa, rimesso in funzione nel 2002 da Gastone Mezzaroba grazie ai finanziamenti pervenuti dall’Amministrazione Comunale, dalla parrocchia di San Prospero e dalla Fondazione Carisbo, esalta con la sua ricca sonorità l’acustica mirabile del caratteristico Santuario, posto in posizione dominante sul crinale.

Santuario Madonna dei Boschi

Chiesa Sant’Andrea Valle di Sàvena (22,2 Km)

Citata in un documento del 1315, fu rifatta nell’800 interamente a sasso a vista. Seppur ben poco abbia conservato dell’edificio originario (è stato invertito lo stesso orientamento della costruzione) è comunque una delle chiese più caratteristiche del territorio, meta frequente di gruppi religiosi.

Chiesa Sant’Andrea Valle di Sàvena

Parco Regionale dell’Abbazia di Monteveglio (52,5 Km)

Il Parco Regionale dell’Abbazia di Monteveglio, area protetta che, dal 1995, custodisce l’intero territorio che insiste attorno all’antica Pieve di Santa Maria .

Il parco dell’abbazia si estende per circa 1100 ha, sulla sinistra idrografica dei torrenti Samoggia e Ghiaia e include le prime colline che si alzano a sud e a ovest di Monteveglio: il colle di Monteveglio alto, con il borgo medievale e l’abbazia, i rilievi dei monti Morello, Gennaro, Freddo. Si tratta di un territorio che, pur non presentando emergenze naturalistiche di grande rilievo, offre numerose opportunità di studio in campo ambientale, paesaggistico e storico-architettonico, e significativi spunti di osservazione sull’evolversi del rapporto uomo-natura e gli effetti che l’attività umana ha da sempre esercitato sul territorio e sul paesaggio.

Il toponimo Monteveglio deriva dal latino Mons Belli, Mons Bellus o Mons Bellius ossia, monte della guerra poiché su questi colli i romani, prima del loro stanziamento, affrontarono una dura battaglia contro i Galli Boi.
Fu solo l’inizio di una serie di avvicendamenti storici che le valsero la nomea di “memoranda nei secoli”, attribuita dal monaco cantore delle gesta di Matilde di Canossa.
L’episodio più calzante, datato 1092, si riferisce all’imponente assedio dell’esercito di Enrico IV nella cornice delle lotte per le investiture fra papato e impero. Il castello di Monteveglio, allora feudo della Granduchessa, resistette per quattro lunghi mesi, uscendo vittorioso dopo la ritirata delle armate imperiali. Scomparsa Matilde, il borgo divenne libero comune e prese parte su entrambi i fronti all’interminabile contesa tra Modena e Bologna.
La vocazione di fortificazione connotò sempre questo lembo di terra che ricorda anche lo sventato tentativo d’invasione della potente armata di Carlo V nel 1527: qui la leggenda narra che Monteveglio venne salvata da un’improvvisa tempesta di neve che disperse miracolosamente i feroci assedianti (in ricordo ogni anno si tiene una processione votiva).
All’ interno del piccolo borgo oltre all’ Abbazia si possono ammirare altri edifici di rilevanza storica come il settecentesco edificio della compagnia di Santa Maria della Rondine e, più avanti, l’Oratorio di San Rocco (del 1631) e storiche costruzioni con archi ogivali e inclusioni di epoca romana. Domina la sommità del colle il complesso abbaziale: la pieve, eretta attorno all’anno Mille per volere di Matilde di Canossa, e la Chiesa di Santa Maria dell’Assunta, con la sua cripta antichissima e lo splendido chiostro quattrocentesco del monastero.

Parco Regionale – Abbazia Monteveglio

Torre dei Lupari (1,5 Km)

Si tratta di un significativo esempio di casa-torre che si fa risalire alla fine del XIV secolo, opera dei maestri comacini; tuttavia Luigi Fantini ipotizzava che potesse essere un fortilizio risalente al XIII secolo e che la bertesca sulla porta di accesso fosse un elemento funzionale alla difesa in un edificio abitativo o adibito all’alloggio periodico di signori locali. Fu probabilmente la famiglia Lupari, oggi estinta, a costruire il fabbricato quattrocentesco dotato di portico e loggiato superiore. Di questa addizione, la parte che presenta il loggiato, collegata direttamente alla torre e caratterizzata da colonne piuttosto tozze con capitelli a foglie uncinate, sarebbe dell’inizio del XV secolo, mentre l’ala del portico sorretto da colonne ottagonali e capitelli più elaborati è probabilmente della fine dello stesso secolo.  All’interno della torre si sviluppa una scala a chiocciola, che ha un parallelo nella rocca di Brisighella, alla quale si accede attraverso una torricella cilindrica. La struttura subì numerosi danni durante la Seconda Guerra Mondiale, pertanto alcune parti furono in seguito ricostruite, pur perdendo completamente l’oratorio della prima metà del XIX secolo. Nel cortile si trova una fontana, il cui mascherone marmoreo presenta un’iscrizione (COMMODITATI – PVBLICAE / PRECARIO) che significa probabilmente che l’utilizzo della fonte era un beneficio concesso al popolo gratuitamente, ma con possibilità di revoca.

L’edificio è di proprietà privata, può essere fruito solamente dall’esterno.

Il Castello di Zena (8,8 Km)

Il castello di Zena nasce come borgo fortificato, in un settore appenninico e decentrato dei possedimenti matildici che si espandevano in un’area geografica compresa tra la Toscana e le province di Reggio e Piacenza. La politica di mediazione nella complessa questione della lotta delle investiture (a tutti è noto l’evento svoltosi al castello matildico di Canossa alla presenza, tra l’altro, del potente abate Ugo di Cluny) portò la Contessa ad intrattenere rapporti sia con la Chiesa che con l’Impero (vale la pena di ricordare che a Bologna era Vicaria imperiale). Tutto ciò per dire che anche il distretto appenninico compreso tra le valli del Savena, dello Zena e dell’Idice, pur con un ruolo minoritario rispetto alle città padane, fece parte di un sistema che necessitava di luoghi fortificati, atti all’offesa ed alla difesa: una rocca, secondo alcuni Autori, posta sulla sommità del Monte delle Formiche, la Torre dell’Erede (o della Rete), il Castello di Zena, la Corte di Scanello disegnano una topografia militare significativa, anche alla luce del passo appenninico della Raticosa. Gli studi, riguardanti l’area sopra indicata nei primi secoli di questo millennio, sono veramente pochi e scarsamente documentati, tranne alcuni grandi repertori, come il Calindri che risale al 1783 ed al Fantini che procede però per sintesi. Qualche notizia in più si ricava da fonti ecclesiastiche, la data del 1078, anno della cessione dei beni matildici al Vescovo di Pisa Landolfo, riguarda un vasto distretto che va dalla corte di Scanello, al Castello di Zena, fino al Monte delle Formiche.
Il complesso denominato Castello di Zena è composto da un insieme di edifici di varie epoche in cui nonostante lo stato di degrado, si può distinguere una parte monumentale ed una che sembra accessoria. Si pensa che questa sistemazione risalga all’ultimo intervento anteguerra, effettuato dalla marchesa Maria Sassoli de’ Bianchi. Il Castello sorge ai piedi del Monte delle Formiche sopra un rialzo di banchi arenaria, rivestito di boscaglie di quercia. Vi si accede da una strada vicinale nella prima parte, privata nella seconda che, con un giro di 360°, porta al giardino alberato antistante gli edifici, sia quelli monumentali sia quelli accessori. Non si tratta dell’accesso antico; questo utilizzava il viottolo denominato San Giustina che, prima di condurre alla chiesa di S. Cristina oggi distrutta, piega verso un sentiero che si snoda ai piedi di un muro di cinta del Castello e porta ad un diverso ingresso. La strada vicinale che prosegue fuori dai confini della proprietà costituisce un antico percorso che raggiunge il Monte delle Formiche passando per la Torre dell’Erede. Appare chiaro come queste strutture fossero parte di un unico sistema difensivo, direttamente collegato mediante un via interna che passava tra campi, boschi ed incolto.

Il castello della Val di Zena

La fanciulla di Zena

A metà tra leggenda e realtà la storia della fanciulla di Zena, altrimenti detta Zenobia, ha ispirato un romanzo del 1846 di Raffaele Garagnani (quest’ultimo pare che avesse preso ispirazione dalle parole di una lapide presente nel cimitero dell’Oratorio di Santa Cristina) e alimentato numerose commedie e rappresentazioni teatrali.
Zenobia era una nobile fanciulla figlia del Castellano del Castello di Zena, che promessa sposa ad una persona che non gradiva si tolse la vita lanciandosi da una rupe a ridosso del castello. La leggenda vuole che la torre del Castello da cui si lanciò in particolari date assume un colore rosso sangue.

La torre dell’Erede

A pochi km dal castello di Zena, sorge la bella “Torre dell’Erede”, o della Rete, con inglobate nella muratura esterna figure in pietra di esseri umani ed animali. Probabilmente costruita nel XIV sec. fungeva da vedetta del Castello stesso.

Borgo di San Pietro (29,0 Km)

Incantevole è la visita al borgo di San Pietro, un poggio a circa 150 mt di altitudine. Qui sorgeva un castello, uno degli anelli nella catena di fortilizi che furono eretti a difesa della Via Emlia. Ora, dell’antico castello, rimane solo la torre d’accesso (1175-76) recentemente ristrutturata.
Il primo documento rinvenuto sul castello risale al 1099 ed è relativo ad un atto di donazione. Il castello di Uggiano fu assaltato e incendiato dalle truppe dell’imperatore Federico Barbarossa. Nel 1360 venne quindi attaccato dai mercenari del duca Bernabò Visconti e nel 1420 da quelli papali di Braccio di Fortebraccio da Montone.
Ai piedi della torre è stato recentemente inaugurato un piccolo giardino archeologico ben descritto, anche per i bambini, da pannelli didattici per far conoscere la storia del borgo.
Sono state erette porzioni di muratura, con telaio ligneo, sulle murature emerse dallo scavo archeologico.

All’interno delle mura del castello sorgevano due chiese, una dedicata a S. Lorenzo e l’altra a S. Pietro. Solo quest’ultima esiste ancora e custodisce alcune opere antiche. La facciata, originariamente semplicissima, con una sola lunetta sopra la porta, fu disegnata nel 1929 dal Collamarini che l’arricchì di nicchie e di un timpano nella parte superiore.
Proseguendo per la strada che costeggia la chiesa, si arriva alle Armi, con le sue meravigliose fontane romane. La più pregevole delle fontane è composta da una vasca ovale di raccolta e da una nicchia con calotta in mattoni. La fontana attinge l’acqua da un’altra posta poco più a monte, che conserva una lapide datata 1565.

Settefonti (27,5 Km)

Il paesino di Settefonti rimane in provincia di Bologna, perso tra le colline e il silenzio….. Un tempo, un’enorme castello dominava la vallata, costruito in epoca remota su quella che era un’antica strada che portava in Toscana. Questo castello fu probabilmente costruito dai Canossa, le sue origini però sono incerte, i documenti dicono che alla fine del Duecento Bologna lo fortificò; in seguito la popolazione incominciò a diminuire inspiegabilmente fino all’abbandono del castello. Questa fortezza, situata sulla cima di un precipizio, aveva una sola entrata ed era circondata da grosse mura. Ghirardacci, nel tardo cinquecento, scrisse delle note in cui riportava la notizia che allora esistevano già delle rovine del castello che era stato abbandonato nel secolo precedente. In seguito, su queste rovine fu costruita nel ‘600 la chiesa di S. M. Assunta che fu poi parzialmente distrutta durante la seconda guerra mondiale. Attualmente sono stati fatti dei lavori di restauro alla facciata della chiesa, i quali hanno riportato alla luce un muro costruito con blocchi di selenite che facevano parte dell’antica chiesa del castello di epoca romanica.
Settefonti, anticamente “Stifonte”, prende il suo nome da sette miracolose fonti che sgorgavano nei boschi di questa zona. Secondo la leggenda avevano poteri diversi, dalla guarigione fino alla vita eterna.

Sette fonti

La leggenda della Beata Lucia da Settefonti

Beata Lucia da Settefonti vergine camaldolese. Tra i calanchi del nostro paesaggio collinare ce n’è uno ancora percorribile lungo il suo crinale: quello detto della Badessa. Intorno a questo percorso è fiorita la gentile leggenda della Beata Lucia da Settefonti. Attorno al 1100, Bologna vive una vita cittadina continuamente turbata dalle lotte tra Guelfi e Ghibellini. In questo clima politico, nell’antica famiglia Chiari, viene alla luce una bambina, alla quale la madre impartì un’educazione religiosa e, con gli anni, divenuta una splendida ragazza, matura il desiderio di dedicare la vita alla preghiera, scegliendo di vivere nel monastero Camaldolese di Stifonti, fondato nel 1097. Tale monastero, dedicato a Santa Cristina, sorgeva vicino all’attuale pieve di Pastino, a ridosso del lungo crinale tra i calanchi. La giovane prese i voti nella chiesa bolognese di Santo Stefano, scegliendo il nome di Lucia. Divenne badessa, alla morte di Matilde fondatrice del convento, ma la fama della sua bellezza raggiunse il circondario e la voce giunse anche alle tante guarnigioni che presidiavano il territorio di Uggiano. Tra i militi vi era un soldato di ventura, il nobile bolognese conte e cavalier Diotagora Fava, conosciuto come Rolando; egli si era fatto trasferire proprio nella guarnigione di San Pietro per poter rivedere Lucia, che aveva incontrato in una chiesa di Bologna, quando non aveva ancora preso i voti. Il bel cavaliere percorreva a cavallo ogni mattina il sentiero sui calanchi, per recarsi alla chiesa del convento, ma mai una parola fu detta tra loro. Lucia si era accorta di questa costante presenza e presto si trovò a combattere il turbamento con assidue preghiere, veglie e penitenze che minarono presto la sua salute. Cadde ammalata, ma lui non cessò le sue visite mattutine. Una volta guarita, cercò invano di resistere a non scendere più in chiesa, ma un giorno decise di parlargli, con la complicità di una suora. Si parlarono, lui aprì il suo cuore e anche Lucia lo fece: gli disse di amarlo, ma di essere risoluta nella sua dedizione alla vita monastica e lo invitò a non tornare più. Si lasciarono, con la promessa del cavaliere di partire crociato per la Terrasanta. Così fece, mentre Lucia, minata dalla malattia, si spense santamente. Il cavaliere durante le Crociate fu ferito e rinchiuso in una cella dove una notte, in preda alla febbre, vide Lucia che gli tendeva la mano e, come in sogno, lo trasportava nella foresta di Stifonti nei pressi del Monastero. In cambio di questa grazia, secondo il messaggio della Beata, il cavaliere avrebbe dovuto lasciare i ferri con cui era legato in prigionia sulla tomba di lei. Il cavaliere risvegliatosi veramente nella foresta di Stifonti, s’incamminò verso il convento, s’inginocchiò davanti alla tomba dell’amata, si tolse i ferri e pianse. In quel momento le sette fonti di acqua cristallina, che si erano seccate alla morte di Lucia, ripresero a zampillare copiosamente. Questo fatto fu raccontato per la prima volta dal cavaliere redivivo e subito Lucia fu venerata come santa dalla gente, la Chiesa però non lo ritenne verosimile e ignorò la cosa. Intanto, dopo la morte di Lucia (1157), il convento, continuamente preso di mira dai briganti, data la sua posizione isolata, fu trasferito a S. Andrea di Ozzano, sulle pendici del monte Arligo, dove sorgeva un altro monastero camaldolese, poi, a metà del Duecento, dentro le mura di Bologna nel convento di S. Cristina della Fondazza, tuttora esistente. Solo nel 1508 la Chiesa riconobbe ufficialmente il fatto accaduto tre secoli prima e proclamò Lucia beata. Le reliquie della Santa rimasero qui fino al 7 novembre 1573 quando il Cardinale Paleotti le traslò di nuovo nella chiesa di S.Andrea di Ozzano. Pio VI nel 1779 ne confermò il culto e ne fissò la memoria al 7 novembre. I Camaldolesi la venerano come fondatrice del ramo femminile dell’ordine. Oggi il monastero non esiste più, essendo stato demolito nel 1769; a indicare l’originaria posizione sulla collina vi è solo un pilastrino, dono della famiglia Fava. Anche le sette fonti si sono prosciugate col tempo, l’ultima che era rimasta è stata interrata anni fa dal proprietario, stanco del via vai della gente che si andava a bagnare sperando in un miracolo. Nella chiesa di S. Andrea, dove il corpo di Lucia fu trasportato nel 1573, un paio di ceppi pendono dall’altare, e da quel tempo lontano, lo stretto calanco che il giovane cavaliere era solito percorrere, prese il nome di Passo della Badessa.

Borgo di Bisano (20 Km)

Percorrendo verso sud la Provinciale Valle Idice, oggi principale via di comunicazione ma inesistente fino al 1871 quando l’unica “strada” di fondovalle era via del Fiume, ossia il greto stesso del fiume Idice, si arriva alla frazione di Bisano. Borgo di Bisano, caratteristico borgo, nominato per la prima volta nell’ estimo del 1204, fu sede di castello e successivamente di podesteria. La suggestiva chiesa di S. Alessandro (dedicazione che risale al 1550 circa in sostituzione di quella precedente a santa Croce) arroccata su di uno sperone di roccia, è stata interamente ricostruita nell’anno 1893. Nei pressi di Bisano troviamo l’oratorio dedicato ai santi Sebastiano e Rocco, edificata nel 1510 dalla famiglia di Giovanni delle Donee. La quattrocentesca “Casa Cella” edificio signorile appartenuto nel Quattrocento al nobile Giacomo di Gottifredo, conserva le caratteristiche architettoniche originarie. Assai rara l’entrata, costituita da una piccola corte murata attraverso la quale si accede ad una loggia su cui si apre un portale datato 1479 con architrave decorato da un cartiglio e da una cornice con motivi ad ovali. Sul portale d’ingresso dell’adiacente edificio adibito a mulino è scolpito uno scudo con al centro una croce, due stelle e dei gigli con a lato le chiavi incrociate, segno della possibile appartenenza di questo edificio alla chiesa. Del 1700 è “Casa Faccioli” con un bel portale e sei tempere di scuola bolognese. Notevole è la casa detta “La Miniera” si trova nei pressi della prima miniera di rame aperta nel 1846, ma già nota prima del 1674, scoperta dai romani nel I sec. a.C., ed è visitabile per un tratto dalla galleria ben conservata.

Il Borgo di Bisano

Piancaldoli (45,5 Km)

Piancaldoli è una piccola frazione del comune di Firenzuola che nasce tra gli Appennini, proprio in quel lembo di terra dove la Toscana incontra l’Emilia e la Romagna, e si adagia lungo l’alta valle del fiume Sillaro. Paese di origini assai antiche è stato testimone di numerosi eventi storici e politici dei quali leggende e simboli di religione ed arte sono il segno.

Etimologia del termine

Da un documento risalente al 1101 d.C. emerge che l’appellativo Piancaldoli sia derivato dal fatto che un tale Aldolo, avendo avuto la custodia della regione, si sarebbe premurato di armare il territorio al fine di tutelare il governo e la difesa di questo: da ciò l’attribuzione di Plani Castrum Aldoli (tradotto: luogo fortificato nel piano di Aldolo) da cui il nome Piancaldoli.

La storia del borgo

Essendo Piancaldoli un piccolo borgo, non possiede un archivio storico che possa fornire informazioni sulla storia del territorio; per questo le poche notizie giunte fino a noi sono spesso incerte, tramandate di famiglia in famiglia e non riscontrabili in documenti scritti. Il Paese ha origini assai antiche, leggende tramandate negli anni parlano della presenza di insediamenti umani già alcuni secoli prima della nascita di Cristo. Poco è però possibile ricostruire alla luce di alcune monete romane e armi medioevali rinvenute in borgate limitrofe al centro abitato. Prime tracce appurate del Paese risalgono all’epoca Carolingia, quando apparteneva alla Contessa Matilde di Toscana; poi Piancaldoli risulta uno dei più antichi possedimenti dei Magnati degli Ubaldini, i quali intorno al Mille portavano il titolo di Conti Rurali. Dopo essi compaiono come padroni del Borgo i Samaritani, ramo degli Ubaldini, con Landolfo (1043) e Aldolo (1101), che, come già detto, avendo reso il luogo fortezza ben difesa, diede il nome alla località. Nel 1166 il territorio faceva parte della proprietà di Martino de Plancaldolo e della moglie Teuccia, e in seguito di Monaldo de Plancaldolo. Nel 1187 Piancaldoli divenne una giurisdizione del Vescovo di Cervia, e quest’atto fu riconosciuto anche nel 1244 da Papa Innocenzo IV. La zona di Piancaldoli fu elemento del Contado Imolese fino al 1256, anno in cui i Bolognesi sottomisero Imola, e successivamente dal 1292, quando i Comuni della montagna fecero giuramento di fedeltà alla città di Imola fino a quando nel 1328 la suddetta famiglia dei Samaritani vendette Piancaldoli al Senato di Bologna per un valore corrispondente a 1290 lire di moneta bolognese a quel tempo. A questo punto della storia di Piancaldoli vi fu una serie di anni trascorsi in tranquillità, fino a quando, nel 1480, il conte Girolamo Riario, Signore di Imola, ricevette dal Pontefice, suo Signore, l’investitura dello Stato di Forlì, comprendente anche l’Imolese e Piancaldoli, suscitando l’ira di Lorenzo de’ Medici, le cui truppe affrontarono quelle del Riario proprio nei pressi della Rocca che sovrasta il paese che, dalla consorte del Riario, Caterina Sforza, prese il nome, in una battaglia nel 1488 in cui perse la vita un tale Cecca, inventore di catapulte ammirato in tutto il territorio fiorentino. L’episodio è narrato da Niccolò Machiavelli, che a Piancaldoli sostò durante un suo viaggio verso Imola, nelle sue Istorie Fiorentine.

www.piancaldoli.it

Castel del Rio (43,4 Km)

Il primo nucleo abitativo del territorio sorse sulle alture che circondano l’attuale Castel del Rio nel VI e VII sec quando famiglie lombarde si rifugiarono nella zona per sfuggire all’invasione dei barbari. Nel X sec. fu costruito, su un’altura, ne sono ancora visibili i ruderi, il castello di Cantagallo probabilmente a difesa delle orde di Ungari che avanzavano voracemente in Romagna. La storia di Castel del Rio viene però segnata dalla famiglia Alidosi che per oltre quattrocento anni (dal XIII al XVII sec.) governa su queste terre altalenando fra miseria e opulenza, impegno e malizia, luce e morte, mito e storia. Il feudo allora chiamato Massa di Sant’Ambrogio fu concesso agli Alidosi nel XIII sec grazie ad un privilegio imperiale. Nella famiglia si distinsero personaggi illustri come Riccardo, capitano del popolo, podestà di Firenze e poi senatore a Roma; Francesco cardinale nel 1505 e uomo di fiducia del Papa Giulio II che lo aveva nominato Tesoriere della Chiesa, fu ambasciatore e legato pontefice a Bologna dove si distinse per la sua crudeltà, fu poi ucciso a tradimento dal Duca di Urbino; Obizzo uomo di legge e di cultura fu governatore di Ravenna, Cervia, Bertinoro e Cesena e committente del Ponte Alidosi. Intense furono le relazioni con la Repubblica di Firenze che, in cambio di protezione, impose alla famiglia di riportare lo stemma del giglio sul petto del grifone (stemma araldico della fam. Alidosi). Ricordata per la durezza e la spietatezza nei confronti del popolo la famiglia ha comunque lasciato ai posteri un’ orgogliosa identità culturale quali il Palazzo e il Ponte Alidosi. Nel 1638 le truppe pontificie occuparono il feudo degli Alidosi; gli abitanti di Castel del Rio inizialmente felici per l’accaduto si trovarono ben presto a rimpiangere la vecchia Signoria, oppressi dai dazi e dalle gabelle dei nuovi amministratori. Ogni anno nel mese di luglio un’atmosfera di festa pervade per più giorni le strade del paese per rievocare i fasti della famiglia Alidosi.

Sito istituzionale del Comune

Il Ponte

Si erge sul fiume Santerno da più di cinquecento anni, un vero capolavoro di ingegneria civile. Genio o follia dell’uomo, il Ponte Alidosi presenta una struttura a schiena d’asino con un’unica arcata di 42 metri e una freccia di 19 metri. Commissionato da Obizzo Alidosi nel 1499 a mastro Andrea Gurrieri per cinquecento ducati d’oro, il Ponte simboleggia la potenza e la solidità della famiglia, riconquistate dopo un periodo di stagnazione.

Il Palazzo

Della prima residenza della famiglia Alidosi, “Castrum Rivi” chiamata ora il “Castellaccio” sorta fra il XIII e il XIV sec non resta quasi nulla, a differenza del Palazzo costruito nel XVI sec.
Discordia fra gli storici in merito al nome dell’architetto che progettò il maniero, sono stati citati il Bramante e Francesco da Sangallo. Il progetto iniziale prevedeva la realizzazione di un Palazzo-fortezza, con quattro bastioni a losanga molto pronunciati che racchiudevano all’interno un grande cortile con un loggiato composto da ventiquattro colonne di un solo pezzo di arenaria e al centro un pozzo. Un grande fossato circondava il palazzo e un ponticello a tre arcate consentiva di attraversarlo per entrare dall’unico ingresso realizzato. Il Palazzo rimase però incompiuto per mancanza di fondi e dei quattro bastioni previsti ne furono realizzati solo due.
Vero gioiello rinascimentale, ancora visitabile, è il Cortiletto delle Fontane dove sono accolte tre bellissime fontane a conchiglia, tre colonne di arenaria sorreggono un loggiato e sotto le vele della loggia otto nicchie circolari accoglievano i busti degli esponenti più importanti della famiglia.
Il Palazzo è stato interamente restaurato ed è ora sede comunale, ospita inoltre nelle sue stanze la biblioteca, il museo della guerra e il museo del castagno.

Il Museo della Guerra

Fra i più ricchi dell’Emilia Romagna per numero di reperti posseduti, il museo della Guerra di Castel del Rio nasce nel 1978 grazie alla volontà di gente comune.
Oltre duemila pezzi, rigorosamente catalogati, sono esposti al secondo piano di Palazzo Alidosi. Articolata in tre sezioni: la Grande Guerra, la II Guerra Mondiale e l’attività partigiana e la deportazione dei cittadini di Castel del Rio, la collezione si compone di reperti e di documenti quasi interamente donati.
Il museo è visitabile tutti i giorni festivi dalle 14.00 alle 18.00.

Per informazioni
Cellulare 349/1550195
E-mail: museo@museoguerra-casteldelrio.it

Il Museo del Castagno
All’interno di Palazzo Alidosi è anche presente un’esposizione didattica dedicata al castagno: alle caratteristiche ambientali del territorio alla storia, strumenti e metodi di una produzione che ha rappresentato nei secoli una risorsa fondamentale per l’economia della vita contadina, e non solo, dell’alta vallata del Santerno.
Il museo è visitabile la domenica e i giorni festivi dalle 14.00 alle 18.00.

Per informazioni
Tel. 0542/95906

Il borgo di Panico (Marzabotto) (18,6 Km)

Tra i colli di Bologna sorge un piccolissimo borgo chiamato Panico, una frazione del più noto Comune di Marzabotto. Il nome Panico, che potrebbe ricordare la paura, trae in realtà origine da uno dei cereali minori che veniva diffusamente coltivato in queste zone, il panico appunto, molto simile al miglio e che secondo alcune fonti darebbe anche origine al nome “Borgo Panigale”. Raggiungibile a piedi dal sentiero CAI che parte da Luminasio, la piccola frazione di Panico viene spesso attraversata senza prestare molta attenzione alla sua storia. Complice la bellezza del paesaggio, si fa presto a dimenticare le origini di questo sentiero, che è da percorrere preferibilmente in tarda primavera o inizio estate. Panico, infatti, ha una storia abbastanza particolare. Durante tutto il Medioevo, i Conti di Panico furono i dominatori incontrastati di questo angolo di Appennino, con grandi possedimenti in tutta la valle del Reno. Dopo aver combattuto duramente contro il Comune di Bologna per oltre mezzo secolo, furono gli ultimi feudatari di tutta la Provincia ad essere sconfitti alla fine del 1300 e costretti ad abbandonare i loro castelli fra le montagne. Infatti, quando attorno alla metà del 1200 il Comune di Bologna si rafforzò, molti dei feudatari si allearono completamente con la città, altri invece, si accordarono, sia per poter mantenere il loro patrimonio, almeno in parte, sia per non perdere il loro ruolo politico e sociale. Pochi altri, come appunto i Conti di Panico, furono duramente avversi e si opposero fino alla fine alle richieste di Bologna. La cosa non deve stupire perché, anche se spesso non si tende a considerarla parte della storia della nostra Regione, infuriava in quei tempi la lotta fra Guelfi e Ghibellini e mentre Bologna aveva sposato la fazione Guelfa, i Conti di Panico erano fedeli vassalli dell’Imperatore e, contrari ai Guelfi, non cedettero ad alcun compromesso. Il castello principale dei Conti di Panico si trovava sull’enorme e bellissima rupe che sovrasta la Pieve di Panico, da cui si dominava l’intero fondovalle. Purtroppo la fortezza fu completamente distrutta dai Bolognesi nel 1307, ma guardando la rupe, si fa presto ad immaginare questi Duchi di montagna, asserragliati tra le meraviglie della loro terra. Oggi possiamo invece ammirare l’imponenza del grande ponte romano e visitare la bellissima Pieve Romanica, restaurata alla fine del 900. Senza dubbio alcuno, merita una visita la Basilica di San Lorenzo Martire, situata a pochi passi dal sentiero e ben segnalata. Ma l’attrattiva principale è senz’altro la visione che si ha della rupe quando, alla fine del percorso che parte da Luminasio, veniamo colpiti dalla vista di questa splendida roccaforte naturale.

Il Borgo di Panico

Borgo di Panico

Vergato il Palazzo dei Capitani della Montagna (32,2 Km)

Fra le testimonianze più rilevanti del comune occupa sicuramente un posto di primo piano il Palazzo dei Capitani della Montagna, oggi palazzo comunale di Vergato. Appartenuto alla nobile famiglia Malvezzi, qui governarono i capitani della montagna dal Quattrocento fino all’inizio del Settecento. Dopo varie ristrutturazioni nel 1885 fu oggetto di una nuova ulteriore ricostruzione su disegno dell’architetto Tito Azzolini (1837-1907), autore della Montagnola e di molte ville di Bologna, del campanile di San Michele in Bosco, della torre Garisenda.
Interessanti i numerosi stemmi e le iscrizioni dei Capitani della Montagna fissati sulla facciata principale del Palazzo.
Oggi il Palazzo è stato ulteriormente arricchito da nuove vetrate che ornano la Sala del Consiglio Comunale, realizzate da Luigi Ontani, artista di fama internazionale con origini vergatesi.
Segnaliamo ancora la chiesa del Sacro Cuore di Gesù e Cuore Immacolato di Maria, nella piazza della Pace, costruita nel dopoguerra, che conserva al suo interno una “Madonna” quattrocentesca di scuola umbra.

www.comune.vergato.bo.it

La chiesa di Santa Maria Assunta di Riola (41,7 Km)

La chiesa di Santa Maria Assunta di Riola, che si trova sull’Appennino sulla strada Porrettana, fu progettata dall’architetto finlandese Alvar Aalto. Il progetto risale al 1966 la chiesa fu realizzata fra il 1977-78. L’architettura dell’edificio costituisce una sintesi dei motivi di Aalto nel campo dell’architettura religiosa. È stata concepita come risposta alla richiesta del cardinale Giacomo Lercaro di una chiesa, la prima, che fosse architettonicamente rispondente alla rinnovata liturgia post conciliare. La richiesta (il primo progetto risale al 1966) era di ottenere la più stretta correlazione possibile tra l’altare, il coro, l’organo e il fonte battesimale. La volta asimmetrica convoglia la luce all’interno dell’unica navata, e soprattutto sull’altare verso il quale si apre il battistero. L’architetto ne ha disegnato non solamente le strutture, ma anche tutti gli arredi interni. La costruzione, iniziata nel 1975, a causa di difficoltà finanziarie fu terminata solo nel 1980 e con dimensioni ridotte rispetto al progetto originale. Nel 1994 fu possibile completarla con la costruzione del campanile. La chiesa è stata inaugurata nel 1978.

Chiesa di Santa Maria Assunta

Rocchetta Mattei (42,4 Km)

Fu costruita dal Conte Cesare Mattei sui resti di un antico insediamento fortificato facente parte dei possedimenti di Matilde di Canossa. Fu la dimora del conte Cesare Mattei, letterato, politico e medico autodidatta fondatore della medicina elettromeopatica, sulle basi della medicina omeopatica che praticava presso il castello e che lo portò a raggiungere una fama mondiale nel ventennio 1860-1880. Il 5 novembre 1850 viene posata la prima pietra della Rocchetta, e già nel 1859 è considerata abitabile, tanto che Cesare Mattei non se ne allontana più. La fama della Rocchetta crebbe con quella del Conte e dell’elettromeopatia, nella quale erano riuniti il potere delle erbe con quello dell’elettricità vegetale. Il conte possedeva industrie farmaceutiche in tutto il mondo e da tutto il mondo vennero a farsi curare da ogni tipo di malattia; sembra che, addirittura, ospiti della Rocchetta siano stati Ludovico III di Baviera e lo zar Alessandro II. Nel 1925 è visitata in forma ufficiale da S. A. R. il Principe di Piemonte. Persino Dostoevskji cita il Conte ne I fratelli Karamàzov, quando fa raccontare al diavolo di essere riuscito a guarire da terribili reumatismi grazie a un libro e a delle gocce del Conte Mattei.

Museo Cesare Mattei

Rocchetta Mattei

Montovolo (48,1 Km)

Montòvolo è stato un luogo di culto sin dall’età pagana, ma il santuario odierno, dedicato a Santa Maria della Consolazione, risale al XIII secolo, quando venne ricostruito sulle macerie di una chiesa donata nel 1054 dal vescovo Adalfredo ai canonici di San Pietro di Bologna e distrutta nel 1240 dai ghibellini che parteggiavano per Federico II di Svevia. L’iscrizione sulla lunetta in arenaria del portale, A.D. MCCXI R.O. I. P, che Mario Fanti interpreta, incontestato, come Anno Domini 1211 Regnante Othone ImPeratore (cioè Ottone di Brunswick che regnò dal 1209 al 1218), pone una collocazione temporale precisa della Chiesa di S. Maria di Montovolo (l’intitolazione alla B.V. della Consolazione è documentata solo dal XIX secolo), la cui storia, però, è assai più antica. Tralasciando le origini remote, che la individuano come probabile tempio pagano (probabilmente si tratta di un tempio etrusco praticamente intatto), ipotesi suffragata da rinvenimenti nei dintorni di reperti etruschi di varia natura, e limitandoci all’era cristiana, esse si possono far risalire al X-XI secolo, come attestato dai resti nella cosiddetta cripta, certamente di età proto-romanica. Chiesa, questa primitiva, andata distrutta da un incendio. L’edificio attuale conserva parte della vecchia costruzione (le absidi, le monofore e i capitelli), nonché numerosi affreschi devozionali del Quattrocento. L’altra chiesa di Montovolo, più esattamente un Oratorio, è dedicato a Santa Caterina d’Alessandria. Edificato nel medesimo periodo della ricostruzione di Santa Maria, ad una quota più alta di questa (940 m.). Non è dato sapere, infatti, se la data 1211 indichi l’inizio o la fine dei lavori di ricostruzione. All’interno dell’oratorio si possono ammirare degli affreschi quattrocenteschi realizzati da alcuni pittori toscani raffiguranti Santa Caterina, una Crocifissione e un Giudizio Universale. Di certo l’Oratorio di Santa Caterina fu edificato quale ex voto da crociati bolognesi di ritorno dalla crociata di Damietta. Circostanza, questa, che sta alla base dell’accreditamento di Montovolo come Sinai bolognese, avanzato per primo dal Rubbiani nel 1908: il complesso ecclesiale di Montovolo, cioè, dal secolo XIII comincia a richiamare il Monte Sinai allo stesso modo in cui la Sancta Jerusalem delle basiliche bolognesi stefaniane e di S. Giovanni in Monte richiama la città di Gerusalemme e il Santo Sepolcro. Montovolo dalla sua riedificazione assunse il carattere di centro devozionale bolognese per eccellenza che manterrà fino alla edificazione del santuario di San Luca alle porte di Bologna che diede una spinta definitiva al passaggio in secondo piano, in epoca moderna, del Santuario di Montovolo, che divenne uno dei tanti luoghi di devozione Mariana della montagna, con un bacino di affluenza ben circoscritto. (Vi è anche una foresteria con fornacelle per la cottura di carne alla griglia.)

Montovolo