NATURA
Riserva Naturale Contrafforte Pliocenico (7 km)
L’area della Riserva, molto vicina a Bologna e di spettacolare bellezza, è agevolmente visitabile utilizzando la buona rete sentieristica esistente, che consente di salire piuttosto rapidamente, seguendo percorsi non lunghi e dai dislivelli contenuti, sui principali rilievi. Questi catturano lo sguardo per le loro forme e i vasti panorami.
È un’area naturale protetta sorta nel 2006 che ha un’estensione di circa 757 ettari. Si sovrappone parzialmente con il più ampio sito di interesse comunitario e zona di protezione speciale denominato “Contrafforte pliocenico” (IT4050012) che copre una superficie di 2628 ettari.
Il Contrafforte pliocenico è l’insieme di rupi rocciose in pietra arenaria che si snodano come un bastione naturale tra le valli dei fiumi Setta, Reno, Savena, Zena e Idice, in provincia di Bologna, nei territori dei Comuni di Monzuno, Pianoro e Sasso Marconi.
Le rocce costituenti il Contrafforte sono il risultato della sedimentazione di sabbie e ghiaie trasportate dai torrenti appenninici all’interno di un ampio golfo marino che nel Pliocene (tra i 5 i 2 milioni di anni fa), interessava vasta parte dell’attuale Appennino Bolognese (la linea di costa era a circa 15 km a monte rispetto alla via Emilia).
A causa dell’innalzamento e dell’abbassamento del livello del mare (causate da glaciazioni e deglaciazioni), vi furono numerosi cicli di sedimentazione.
Le forze orogeniche innalzavano questi sedimenti da un lato e facevano sprofondare la parte opposta, con cicli di migliaia di anni, con una sorta di basculamento.
Le successive fasi di sollevamento della catena appenninica hanno innalzato queste rocce fino ad oltre 600 m di quota, consentendo ai fenomeni erosivi di esplicarvi la loro azione, modellandole nelle forme che noi oggi osserviamo. Il substrato roccioso si compone nei rilievi più elevati (ad es. monte Adone – 655 m s.l.m., monte delle Formiche – 638 m, monte Mario 466 m, rocca di Badolo 475 m, monte del Frate – 547 m, sasso di Glossina) di arenarie grossolane, di un colore giallo dorato, mentre alla base i terreni sono composti da morbide argille, e spesso solcati da calanchi: tutte queste rocce sono ricche di fossili marini.
Il Contrafforte pliocenico caratterizza un’area di grande interesse, non solo da un punto di vista geologico, ma anche faunistico e ambientale. Ciò che rende particolarmente suggestiva questa porzione dell’Appennino tosco-emiliano è la grande variabilità ambientale con una serie di habitat rocciosi, forestali e di prateria nettamente differenziati tra loro, nei quali nidificano rare specie di uccelli come il falco pellegrino, il lanario (Falco biarmicus), il falco pecchiaiolo, l’albanella minore, il succiacapre, la tottavilla, l’ortolano, il calandro e l’averla piccola.
Centro Tutela e Ricerca Fauna Esotica e Selvatica- Monte Adone (9,4 Km)
Fin dalla nascita del Centro di Monte Adone nel 1989, i responsabili e i volontari si sono trovati d’accordo sul fatto che, proprio per gli scopi stessi che lo caratterizzano, il Centro, per essere distinto dai giardini zoologici e dai parchi faunistici, poteva essere visitato solo ed esclusivamente attraverso visite guidate.
Il Centro nasce nel 1989 come Centro Recupero Fauna Selvatica in risposta alle numerose problematiche legate alla fauna selvatica autoctona, dovute alla crescente antropizzazione del nostro territorio e ad una carente tutela amministrativa.
Il continuo ritrovamento di animali feriti, in difficoltà o inurbati aveva infatti reso necessaria la creazione di un’unità di emergenza per la fauna autoctona dell’Appennino Tosco-Emiliano che provvedesse alla cura, alla riabilitazione e al reinserimento degli stessi nel loro ambiente.
Ad avventurarsi in questa impresa pionieristica sono i fondatori Rudi Berti e Mirca Negrini che, con sacrificio e dedizione, lo dirigeranno con l’aiuto della figlia Elisa e di un piccolo gruppo di volontari.
Nel novembre dello stesso anno, all’aumentare quotidiano delle richieste di intervento si sovrappone inaspettatamente il rapporto con la fauna esotica e la detenzione di animali pericolosi segnato dall’arrivo del primo cucciolo di leone.
È così che il Centro, primo in Italia, decide di attivarsi nella complessa e articolata attività di recupero di animali originari di altri paesi, importati illegalmente per lucro, divertimento, spettacolo e sfruttamento.
La graduale affermazione del Centro come punto di riferimento stabile per cittadini, Enti Pubblici, Forze di Polizia e Vigili del Fuoco, porta nel dicembre del 1993 all’accordo tra la famiglia Berti e i volontari impegnati per la fondazione dell’ Associazione Centro Tutela e Ricerca Fauna Esotica e Selvatica – Monte Adone.
Centro Tutela e Ricerca Fauna Esotica e Selvatica – Monte Adone
Le case nella roccia di Livergnano (9 Km)
Le case nella roccia di Livergnano sono scavate direttamente nel contrafforte pliocenico: soltanto le facciate emergono dalla roccia. Si tratta probabilmente dell’ampliamento di grotte già esistenti: in una di queste nel 1938 è stata ritrovata, in uno strato di argilla, una notevole quantità di foglie fossili, fra le quali si sono individuate molte tipologie non più esistenti. Nelle grotte sono stati ritrovati inoltre oggetti e selci, a testimonianza di una probabile presenza umana preistorica. Alla fine del XVIII secolo le abitazioni furono elevate di un piano e poi notevolmente modificate a causa all’intervento di maestranze napoleoniche che abbatterono parte del contrafforte pliocenico per dare alla strada della Futa l’andamento attuale. Dopo la seconda guerra mondiale le parti in muratura delle case, completamente distrutte, furono ricostruite.
Negli Archivi di Stato di Bologna, Sezione del Comune, Registri di Estimi e tasse dal 1478 al 1491, Vol 2 N°2 fol.217 v esiste la descrizione dei confini del territorio di Livergnano che per verità storica e curiosità qui si trascrive nel suo testo latino: “Confinia vero dicti……..” Caratteristica di questo territorio vi è un banco di arena marina indurito a consistenza di scoglio, che lo attraversa da una all’altra parte. È mescolato di gusci di pettini, di (…) di millepore e madrepore, di nuclei di telline, di gusci di (…) e di pinne marine di lumache marine e di qualche tronco di piante convertite in carbon fossile. È osservabile questo banco e degno delle ricerche dei naturalisti per le cose che contiene non comuni al rimanente del nostrano territorio, e per la forma con la quale va ondulando e per la qualità dell’indurimento e (…) dell’arena che lo compone e per la direzione dei suoi strati ricordante quella dei cicli del mare Adriatico (che da questo banco rimane lontano circa quarantadue, 42, miglia) sente indiscutibile la sua origine ed è un esemplare del suo genere meritevole di essere visitato. Nel 1765 nell’occasione di cavare quadri di sassi arenari per la fabbrica del campanile della Parrocchia alla profondità di circa 18 piedi sotterra, fu trovato, (spaccando uno di questi macigni) nel suo interno una foglia di pianta di arbusto detto in questi monti legno santo, in Roma legno di S. Andrea, nelle Marche legno maledetto. Era la detta foglia conservatissima in tutte le sue parti e solo la tessitura fra le sue costole ridotta in polvere fine ad uso di tabacco di spagna.
Le case sono tutte di proprietà privata e abitate. E’ possibile comunque vedere l’interno di una di queste, visitando il Museo “The Winter Line”. La veduta d’insieme dell’esterno delle case è di grande interesse.
Monte delle Formiche (12 Km)
Il monte delle Formiche è un rilievo facente parte del medio Appennino bolognese che occupa il territorio dei comuni di Pianoro e di Monterenzio. Il suo piccolo massiccio, che comprende le vette di:
– Monte delle Formiche (638 m);
– Monte Lupo (458 m)
Si erge fra le valli del torrente Idice (a destra) e del suo principale affluente del tratto montano, il torrente Zena (a sinistra). Il curioso nome di questo monte è legato a un fenomeno che annualmente si verifica su di esso; intorno all’8 settembre, il giorno della festa della Madonna cui è dedicato un santuario presso la cima della montagna, sciami di formiche alate (Myrmica scabrinodis) raggiungono la vetta e quivi muoiono. L’evento, di cui si ha testimonianza fin da tempi antichissimi, giacché nel Quattrocento la chiesa era denominata Santa Maria Formicarum, ha assunto col tempo una valenza quasi miracolosa, una sorta di omaggio della natura alla Madonna. Nel Santuario, sotto l’immagine della Vergine, è riprodotto un distico latino che recita “centatim volitant formicae ad Virginis aram quo que illam voliant vistmae tatque cadunt” (ansiose volano le formiche all’altare della Vergine, pur sapendo che ai suoi piedi moriranno). L’8 settembre è tradizione che gli insetti vengano benedetti e donati ai fedeli (la credenza popolare vuole che curino alcuni malanni). Alla base del Monte delle Formiche, nei pressi del torrente omonimo, si trova il Castello di Zena. L’edificio è di origini medioevali, ma la sua architettura ha elementi compositi del XIV e XVII secolo.
Magazzino delle terre della Val di Zena (12,9 Km)
Situato all’interno di un’antica stalla in località Tazzola a ridosso del Monte delle Formiche. Il progetto è a cura dell’Associazione Parco Museale della Val di Zena (dott. Giuseppe Rivalta, Silvia Patini, dott.ssa Ines Curzio, Lamberto Monti, Fabrizio Rossi). La Val di Zena è zona ricca di emergenze naturali – storiche – geologiche. Per questo si è pensato ad un centro che dia una visione panoramica del patrimonio. Realizzato all’interno di un’antica stalla, recuperata con materiali naturali si è allestito un percorso geologico con tutti i materiali che si incontrano in valle: sabbie gialle, selenite, argille scagliose. In 10 mt si risale la valle dal Quaternario al Cretaceo: 60000000 di anni! All’interno del museo si possono ammirare, accompagnati da un percorso espositivo con pannelli descrittivi: cristalli di selenite, arenarie, argille scagliose, campioni di cicladee, sabbie gialle, la famosa rosa del gesso bolognese, rame, fossili e i Botroidi che sono formazioni sabbiose, cementate, che ricordano figure antropomorfe e che possono assomigliare a madonnine, talvolta a madonnine con bambino, animali od altro. Questa preziosa raccolta proviene dal Fiume Zena e la si deve alla volontà, all’interesse e alla competenza dell’illustre personaggio e studioso Luigi Fantini, purtroppo, scomparso.
Contatto: Lamberto Monti (333 6124867) Pianoro BO
Orario: Aperto tutti i giorni fino a fine ottobre, per sicurezza chiamare ai numeri: 333 6124867 – 338 8367771 – 051 6510182
Il Sàvena
Il Sàvena (Sèvna in dialetto bolognese) è un torrente, o, meglio, un fiume a carattere torrentizio (bacino idrografico di 170 km²) che nasce nel territorio di Firenzuola, in provincia di Firenze, da un anfiteatro di monti (Sasso di Castro a 1276 m s.l.m., monte Bastione 1190 m s.l.m., Monte Luario 1140 m s.l.m., Monte Freddi 1275 m s.l.m.) poco a nord del passo della Futa; è il maggior affluente dell’Idice (al quale reca almeno i 2/3 della portata, specie nella stagione estiva) che confluisce poi nel fiume Reno.
Il Reno ed il Savena delimitano il territorio della città di Bologna rispettivamente a ovest e ad est.
Toponimo
Una notazione lessicale: l’esatta accentazione del toponimo è Sàvena (come praticamente solo i bolognesi
pronunciano correttamente di primo acchito) e non Savéna come sarebbe forse più comune secondo la fonetica italiana. In effetti, a parte il significato della parola etrusca Sàvena che significa letteralmente “vena d’acqua”, lo stesso Dante Alighieri, nella Divina Commedia, individua i bolognesi come coloro che stanno “fra Sàvena e Reno” e solo l’accentazione fonetica sulla prima “a” è coerente con la metrica dei versi danteschi.
« E non pur io qui piango bolognese
anzi n’è questo luogo tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese
a dicer ‘sipa’ tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno. »
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto XVIII)
Il corso d’acqua
Dopo pochi chilometri dalle sorgenti, il Savena entra in provincia di Bologna, percorre una valle piuttosto incassata e ad andamento pressoché rettilineo, bagnando Pianoro (dove riceve il suo principale affluente, il rio Favale), e la periferia sud orientale di Bologna e termina attualmente il suo corso immettendosi nel torrente Idice presso San Lazzaro di Savena dopo circa 55 km. La portata media annua è di circa 4 m3/s, quella minima di circa 0,3 m3/s, quella delle piene ordinarie può arrivare a 150 m3/s, ma nelle massime piene (centennali) si possono superare i 400 m3/s ed anche più, come accadde nella piena del 4 novembre 1966, nel corso della quale esondò nei pressi di Rastignano e San Ruffillo. I crinali che costeggiano il tratto iniziale sono rivestiti da boschi di latifoglie (faggete). Scendendo, poco dopo l’ingresso nella Provincia di Bologna, il corso d’acqua forma il lago di Castel dell’Alpi (San Benedetto Val di Sambro), formatosi a causa di varie frane, la più recente nel 1951. Più a valle le latifoglie lasciano spazio a una flora meno montana (sambuchi e pioppi). Il corso del torrente è costeggiato, in parte, dalla Strada Statale 65 della Futa che collega Bologna a Firenze ed in parte dalla strada provinciale che collega Pianoro con Castel dell’Alpi, passando, fra l’altro, per le strette e suggestive gole di Scascoli (Loiano), lunghe circa 2 km, con pareti precipiti a picco sul fiume ed una larghezza che, in certi punti, è di pochi metri. Il territorio è però sfruttato da cave di ghiaia e sabbia e in più parti l’equilibrio ecologico è fragile: in particolare le gole di Scascoli sono tormentate da un’enorme frana causata in parte dalla discussa costruzione (negli anni ottanta) della strada fondovalle Savena. Storicamente il Savena è stato utilizzato per dare energia a numerosi mulini (ad esempio il Mulino dell’Allocco, nel tratto montano, Mulino Parisio e Mulino di Frino nell’immediata periferia di Bologna) che ne costeggiavano il corso, e forniva acqua anche a canali che passavano per la città di Bologna, come il Canale Fiaccalcollo (o Fiaccacollo) che costituì per un periodo il fossato esterno della cerchia muraria dei torresotti (cosiddetta Cerchia del Mille). A tale scopo, fin dall’Alto Medioevo fu sbarrato in località San Ruffillo (attualmente alla periferia di Bologna) con una chiusa dalla quale si diparte il canale di Savena. La Chiusa di San Ruffillo (caratteristica nella sua morfologia più moderna con la grande scalinata, lo scivolo e le torrette dell’opera di presa del canale) ed il relativo canale di Savena, che si immette nel sotterraneo torrente Aposa a Bologna, sono ancora funzionanti e connesse con il complesso sistema di canali sotterranei che percorre Bologna. Tra Bologna e San Lazzaro di Savena l’alveo non è naturale ma è stato creato nel XIX secolo per proteggere la città dalle periodiche inondazioni. In origine, infatti, il Savena, uscendo dal territorio di Pianoro a San Ruffillo, piegava verso occidente circondando Bologna con un percorso tortuoso (ancora oggi ne rimangono le tracce nella toponomastica della città). Il torrente incrociava la via Emilia Levante all’altezza dell’antico sobborgo di Pontevecchio, toponimo che deriva dal ponte di origini romane posto a ridosso dell’oratorio di S. Maria di Pontemaggiore (i cui resti sono ancora oggi esistenti). Toccava poi la chiesa tuttora chiamata Sant’Antonio di Savena e, seguendo per un tratto l’attuale tracciato della ferrovia Bologna-Portomaggiore, giungeva fino alle mura cittadine fra porta San Vitale e porta San Donato. Da lì serpeggiava verso nord, passando in corrispondenza dell’odierna fiera, a nord della quale l’antico letto è tuttora esistente, ridotto a canaletta, con il nome di “Savena abbandonato”. Percorrendo verso nord la pianura bolognese parallelamente al Navile e al Reno, si gettava poi in quest’ultimo. Il tratto rettilineo del “Savena abbandonato” che va da Capo d’Argine (frazione di Minerbio) alle Valli di Malalbergo (dove sfocia nel Reno), è il risultato dei lavori di scavo di un letto artificiale, il “Savena Nuovo”, che, a causa dei frequenti straripamenti, il monsignor Cesi diede ordine di intraprendere l’8 aprile 1560. Nel 1776 si decise di convogliare le acque versonord-est (allontanandole, in tal modo dall’abitato di Bologna) utilizzando l’alveo del Rio Polo e dirottandolo nell’Idice in località Borgatella, al confine col Comune di Castenaso. Insieme ai torrenti Zena e Idice, la valle del Savena è costeggiata dal Contrafforte pliocenico ed è interessata dalla Vena del gesso: gode di un interessante patrimonio geologico e naturalistico, con la Grotta della Spipola e la sua dolina, gli affioramenti gessosi del Farneto e della Croara, che formano un complesso carsico di estremo interesse (con grotte e cavità naturali unite da un corso d’acqua ipogeo di ben 6 km, il torrente carsico Acquafredda che nasce alle pendici del Monte Calvo e tributa nel Savena in località Siberia, alla Ponticella). Si tratta del complesso ipogeo gessoso più vasto ed importante d’Italia ed uno dei maggiori d’Europa. Questo patrimonio è tutelato dal Parco dei Gessi Bolognesi e Calanchi dell’Abbadessa.
Parco dei Gessi Bolognesi e dei Calanchi dell’Abbadessa (7 Km)
Il Parco Regionale dei Gessi Bolognesi e dei Calanchi dell’Abbadessa si sviluppa sulle prime pendici della collina bolognese e comprende territori dei comuni di Bologna, San Lazzaro di Savena, Ozzano dell’Emilia e Pianoro, ad altitudini comprese fra 70 e 400 m s.l.m., intorno a importanti affioramenti gessosi che hanno dato vita a un complesso carsico di notevole interesse. Doline, calanchi, altopiani, valli cieche e rupi rocciose modellano in maniera suggestiva il territorio lungo una fascia che, sviluppandosi in modo discontinuo trasversalmente alle valli, culmina verso est nella imponente Vena del Gesso romagnola (anch’essa parte del sistema delle aree protette regionali). Il parco abbraccia inoltre i Calanchi dell’Abbadessa, una spettacolare formazione che imprime al paesaggio un aspetto di severa bellezza.
L’estrema vicinanza a Bologna e a numerosi centri abitati della pianura rende ancora più preziosa l’esistenza dell’area protetta. Le varie emergenze naturali, paesaggistiche e storiche sono agevolmente raggiungibili dalle strade di fondovalle che attraversano il parco e da molti punti della via Emilia, tra San Lazzaro di Savena e Ozzano. Il Savena segna per un lungo tratto il confine occidentale dell’area protetta, che a est si spinge sino al torrente Quaderna; nella sua parte centrale è situata la confluenza fra Zena e Idice. Il parco racchiude vasti affioramenti gessosi con splendide morfologie carsiche e, nel settore più orientale, i suggestivi calanchi del Passo della Badessa. Nonostante l’estrema vicinanza all’area urbana bolognese, grazie al suo microclima ed ai differenti habitat, il parco ospita numerose specie animali tra cui il lupo (alcuni esemplari documentati dal bollettino dell’ente parco).
Parco dei Gessi Bolognesi – Storia
L’esistenza di comunità dedite alla caccia e alla raccolta nella zona è documentata fin dal Paleolitico, e nuclei dell’età del Bronzo, di straordinario interesse, sono stati individuati alla Croara, al Farneto, nella Grotta Calindri e a Castel de’ Britti. Il successivo prevalere dell’economia agricola favorì la concentrazione degli abitati nella pianura. Dove il torrente Quaderna incrocia la via Emilia, appena fuori del parco, si estendeva la città romana di Claterna, una delle poche in regione a non avere avuto continuità abitativa dall’antichità ai nostri giorni.
Di origine quasi certamente etrusca, si sviluppò durante l’età repubblicana e soprattutto augustea, quando era circondata da una corona di ville suburbane; i bei pavimenti in mosaico rinvenuti durante gli scavi sono oggi conservati al Museo Civico Archeologico di Bologna (tutta l’area è privata e l’accesso non è consentito). Proprio a partire da Claterna il console Caio Flaminio, nel 187 a.C., aprì una strada, la “Flaminia Minor”, che giungeva fino ad Arezzo, probabilmente passando da Settefonti e poi lungo il crinale tra Idice e Sillaro. Durante il Medioevo tutto il territorio era caratterizzato da piccoli centri abitati sparsi sui rilievi, in genere fortificati e riuniti intorno a un castello o a una pieve. S. Pietro di Ozzano, ad esempio, uno dei fortilizi a difesa della via Emilia, ebbe origine dagli abitanti di Claterna che, dopo la distruzione della città nel V secolo, si rifugiarono sulla vicina collina. Poco oltre si incontra la Pieve di Pastino, che esisteva già nell’XI secolo; decaduta nel XV secolo e sopravvissuta solo come oratorio, fu poi trasformata in abitazione civile.
Al gesso si è fatto ricorso fin dalla preistoria, come documentano le tracce di estrazione e lavorazione della Grotta Calindri, e poi in epoca romana per uso edilizio: di selenite erano numerosi edifici della Bononia romana e la prima cerchia muraria cittadina. A partire dal XIII secolo, si sviluppò l’uso del gesso cotto come materiale da presa e impasto per stucchi. Il territorio interessato dagli affioramenti gessosi cominciò a essere scavato sistematicamente per ricavare pietra da taglio, in parte poi soppiantata nell’uso dall’arenaria, ma soprattutto materiale per la cottura e la macinatura. Dalle numerose, piccole cave a gestione familiare si passò, alla fine del XIX secolo, a un’attività meccanizzata ed in seguito allo sfruttamento industriale, con un pesante impatto sull’ambiente. Molte grotte vennero distrutte oppure ne venne irrimediabilmente compromessa la stabilità, come nel caso della Grotta del Farneto, il cui recupero e riapertura risale al 2008.
La Grotta del Farneto (11,4 Km)
La Grotta del Farneto, celata nel cuore del Parco dei Gessi e Calanchi dell’Abbadessa con accesso dal Centro visita “Casa Fantini” in località Farneto, venne scoperta nel 1871 da Francesco Orsoni, il quale avviò le prime importanti ricerche archeologiche.
La grotta è celebre per alcune sepolture risalenti all’Età del Rame rinvenute dal grande speleologo bolognese Luigi Fantini negli anni ’60 in un riparo naturale creato da uno strato sporgente e oggi conservate presso il Museo della Preistoria “Luigi Donini” di San Lazzaro di Savena, il Museo Archeologico di Bologna e il Museo Archeologico Paleoambientale di Budrio.
La grotta del Farneto è stata ufficialmente riaperta al pubblico, grazie ad un lungo intervento di recupero e messa in sicurezza, il 12 ottobre del 2008 La grotta, sviluppata per circa un km, è la parte terminale di un complesso sistema carsico che origina nella Valle cieca di Ronzana. La visita guidata si svolge in una parte oggi inattiva (“fossile”) e per una lunghezza di circa 200 m. Il livello di difficoltà è basso, è quindi solo necessario indossare calzature adatte ad una normale escursione, pantaloni lunghi e felpa. La visita è adatta anche ai bambini a partire dai 4 anni.
La Grotta della Spipola (9,4 Km)
La Grotta della Spipola, costituisce una delle più importanti e spettacolari attrazioni del Parco dei Gessi Bolognesi e Calanchi dell’Abbadessa. Impiegata come rifugio nel corso dell’ultima guerra, la grotta è oggi considerata tra le maggiori cavità europee scavate nei gessi. Venne scoperta nel 1932 dal grande speleologo bolognese Luigi Fantini che si calò dal famoso “Buco del calzolaio”, costituisce meta di visite guidate. Si accede alla grotta dal fondo di via Benassi, dove c’è l’area di sosta La Palazza, alla Ponticella di San Lazzaro di Savena. Alla grotta si accede da un ingresso artificiale costruito nel 1936 dal GBS (Gruppo speleologico bolognese) poco più in basso dell’ingresso naturale, detto Bus d’la Speppla o Buco del Calzolaio.
L’ingresso è posto sul fondo della dolina maggiore di tutto il complesso dei gessi bolognesi (oltre 700 metri di diametro): al suo interno trovano spazio doline minori e numerosi inghiottitoi (buche nel terreno) da cui si accede ad altrettante grotte, estesi boschi rivestono invece il fondo e i versanti più freschi, mentre prati coltivi e un rado bosco a roverella, interrotto dagli affioramenti, occupano le aree più assolate e i declivi.
Il percorso di circa 500 metri non presenta particolari pericoli e difficoltà. La visita permette di conoscere le morfologie carsiche sotterranee del Parco dei Gessi e dei Calanchi dell’Abbadessa accedendo a saloni, cunicoli, colate alabastrine, canali di volta e concludendosi con una tappa alla dolina interna.
La visita guidata alla Grotta della Spipola costituisce una vera esperienza speleologica. Avventurosa e adatta anche ai bambini con più di 7 anni, occorre però un abbigliamento adeguato che viene comunicato all’atto della prenotazione.
La Grotta della Spipola, costituisce una delle più importanti e spettacolari attrazioni del Parco dei Gessi Bolognesi e Calanchi dell’Abbadessa. Impiegata come rifugio nel corso dell’ultima guerra, la grotta è oggi consideratatra le maggiori cavità europee scavate nei gessi. Venne scoperta nel 1932 dal grande speleologo bolognese Luigi Fantini che si calò dal famoso “Buco del calzolaio”, costituisce meta di visite guidate. Si accede alla grotta dal fondo di via Benassi, dove c’è l’area di sosta La Palazza, alla Ponticella di San Lazzaro di Savena. Alla grotta si accede da un ingresso artificiale costruito nel 1936 dal GBS (Gruppo speleologico bolognese) poco più in basso dell’ingresso naturale, detto Bus d’la Speppla o Buco del Calzolaio.
L’ingresso è posto sul fondo della dolina maggiore di tutto il complesso dei gessi bolognesi (oltre 700 metri di diametro): al suo interno trovano spazio doline minori e numerosi inghiottitoi (buche nel terreno) da cui si accede ad altrettante grotte, estesi boschi rivestono invece il fondo e i versanti più freschi, mentre prati coltivi e un rado bosco a roverella, interrotto dagli affioramenti, occupano le aree più assolate e i declivi.
Il percorso di circa 500 metri non presenta particolari pericoli e difficoltà. La visita permette di conoscere le morfologie carsiche sotterranee del Parco dei Gessi e dei Calanchi dell’Abbadessa accedendo a saloni, cunicoli, colate alabastrine, canali di volta e concludendosi con una tappa alla dolina interna.
La visita guidata alla Grotta della Spipola costituisce una vera esperienza speleologica. Avventurosa e adatta anche ai bambini con più di 7 anni, occorre però un abbigliamento adeguato che viene comunicato all’atto della prenotazione.
Le Grotte di San Cristoforo di Labante (41,8 Km)
Solamente una piccolissima parte del territorio della Provincia di Bologna è sede di fenomeni carsici e gli unici che sono effettivamente noti al grande pubblico, ampiamente studiati e documentati, sono quelli nei gessi messiniani, situati essenzialmente nella prima fascia collinare a corona di Bologna.
Eppure a pochi chilometri dal Capoluogo, nel Comune di Castel d’Aiano, vi è un fenomeno carsico che, dal punto di vista strettamente scientifico, deve essere considerato ancora più importante dei “Gessi Bolognesi”, non fosse altro ce per la sua rarità.
Si tratta della più grande grotta primaria nei travertini d’Italia e forse una delle più grandi del mondo: la Grotta di Labante. Queste cavità naturali, infatti sono molto rare , e soprattutto, difficilmente superano i 4-5 metri di lunghezza. Le Grotte di Labante raggiungono addirittura i 51 metri con un dislivello di 12.
Sopra la grotta è presente anche una cascata naturale alimentata dalla stessa sorgente che ha dato origine alla formazione calcarea, e se viene osservata con il sole alle spalle, regala un arcobaleno molto suggestivo. Cunicoli e pertugi consentono di visitare le grotte di Labante, all’interno delle quali è possibile ammirare l’azione naturale dell’acqua che ha plasmato vegetali e cristalli di calcite dalle forme piu’ strane.
La Grotta di Labante è situata al centro di un bellissimo parco adatto a escursioni sia a piedi sia in bicicletta.
Storicamente, risulta essere la prima cavità naturale del bolognese di cui si conservi memoria scritta.
Nel 2005 venne constatato che il pavimento del cunicolo, che collega le due entrate principali, era costituito da un accumulo di vari centimetri di spessore di ciottoli arrotondati, che si rilevarono essere una delle cose più rare che le grotte possano ospitare: le pisoliti, dette anche perle di grotta, poiché il loro modo di riprodursi è del tutto simile a quello delle perle all’interno dell’ostrica.
Si visita liberamente senza biglietto né prenotazione.
Parco Provinciale La Martina (27,8 Km)
Il Parco è stato realizzato dalla Provincia di Bologna nel 1972, su una superficie di circa 155 ettari di proprietà del comune di Monghidoro, a poca distanza dal Passo della Raticosa. Un tempo quest’area era caratterizzata da prati e seminativi e da boschi radi di querce, ma a partire dagli anni ’20 fu rimboschita con conifere quali il pino nero, il pino silvestre, l’ abete bianco e il cipresso di Lawson. La presenza di boschi, popolati anche da specie arboree non propriamente locali, rende l’habitat del Parco unico nella zona, ed inoltre rende il luogo sede privilegiata di piacevoli passeggiate. Anche la flora, collinare e medio-montana, risulta interessante soprattutto in primavera e all’inizio dell’estate. Lungo uno dei sentieri del parco si possono osservare i resti di un’antica miniera di rame, di cui si scorge ancora l’ingresso di una galleria. E’ stato segnalato un percorso didattico naturalistico che consente di osservare e riconoscere gli arbusti, gli alberi e gli ambienti naturali tipici della zona.
Sasso di San Zanobio (39,5 Km)
Il Sasso di San Zanobio (chiamato Sasso di San Zenobi in Romagna) è una formazione rocciosa che si trova al confine tra l’Appennino tosco-romagnolo-emiliano nella valle del torrente Diaterna, a poca distanza dal “Passo della Raticosa”, in località Caburaccia, nel comune di Firenzuola (FI). In questo luogo si trovava anche la chiesetta di San Zanobi, distrutta dal passaggio della guerra, segnata nel libro delle decime del 1299.
Il Sasso di San Zanobi è una roccia ofiolitica (dalle parole greche ofis, serpente, e lithos, roccia), per le striature verdastre e violacee che la percorrono, e si innalza vicino al luogo in cui sorgeva la chiesetta e dove nel Medioevo la famiglia Ubaldini possedeva una rocca. In questa zona si trovano due piccoli monti ferrigni, che non hanno molta affinità col vicino terreno cretaceo. Non molto distanti dal Sasso di San Zanobi si trovano altre due ofioliti: il Sasso della Mantesca e il Sasso delle Macine.
La leggenda
Nel IV secolo, il vescovo sant’Ambrogio di Milano si incontrò col vescovo di Firenze san Zanobi, vicino a Pietramala, dove quest’ultimo si era recato per la sua opera pastorale. In seguito a questo incontro, san Zanobi sentì raddoppiare le proprie forze ed ottenne nuove conversioni nella zona tra la Diaterna, Caburaccia e l’Idice.
Secondo la leggenda, il diavolo convocò allora un concilio infernale, per stabilire il modo di porre termine alle conversioni e propose a san Zanobi una scommessa, secondo la quale chi avesse portato dall’Idice fino alla cima della collina il più grosso macigno sarebbe stato il vincitore e avrebbe preso tutte le anime. San Zanobi si affidò a Dio e firmò questo patto. Il demonio raccolse un macigno e se lo mise sulle spalle con molta fatica e si incamminò, San Zanobi raccolse un macigno molto più grande sollevandolo con leggerezza e tenendolo sul dito mignolo e, superato il diavolo, lo posò nel luogo dove oggi si trova. Il demonio allora vedendo che aveva perso la scommessa andò su tutte le furie e gettò il suo macigno che andò in frantumi fra fuoco e fiamme (trattasi del Sasso della Mantesca, situato a non molta distanza dal Sasso di San Zanobi, nella vicina Valle del Sillaro).
Parco della Chiusa o Parco Talon (25,4 Km)
Noto anche come Parco Talon, è costituito da quanto rimane dei possedimenti dei marchesi Sampieri Talon, che dal ‘600 costruirono ville (Villa Sampieri Talon) e parco nei terreni di loro proprietà; l’attuale struttura del parco lascia intuire l’originaria progettazione: attorno alle due ville si estendeva un ampio giardino, costruito secondo i canoni della scuola francese del Le Notre, poi un piccolo giardino all’italiana, infine un vasto parco all’inglese che apriva scorci suggestivi sul fiume e sui campi e sui vigneti circostanti. Completavano il quadro un laghetto, statue, chioschi, e ambientazioni esotiche, secondo i gusti dell’epoca.
Dietro le ville, sul ripido versante della collina, si estende il bosco, riserva di caccia e di legname. Il parco ha conosciuto momenti di grande splendore mondano, in particolare nel ‘700, ed ha ospitato feste e personaggi celebri. Nell’Ottocento Stendhal, assiduo frequentatore di questi luoghi, lo paragonò al “Bois de Boulogne”. Dal 1975 il parco è di proprietà comunale ed è stato aperto al pubblico, e anche se il tempo e la storia hanno inciso pesantemente, è ancora possibile immaginare gli antichi fasti nobiliari. Qua e là si riconoscono i ruderi delle artificiose invenzioni architettoniche, per le quali gli studiosi fanno anche il nome del famoso architetto e scenografo Ferdinando Galli Bibiena.
Attualmente costituisce un inestimabile patrimonio pubblico, con evidenze storiche e naturalistiche di grande valore. Il parco è attraversato dal Sentiero dei Bregoli.
Oasi naturalistica di San Gherardo (Sasso Marconi) (13,1 Km)
Ubicazione: Via di Rio Conco (Sasso Marconi).
Caratteristiche: L’Oasi naturalistica di San Gherardo è posta nella bassa vallata del fiume Reno, in destra idrografica del fiume e in comune di Sasso Marconi. Si estende per 68 ettari nei pressi di Palazzo de’ Rossi e comprende due zone umide, l’anfiteatro calanchivo di San Gherardo e la parete arenacea del Balzo dei Rossi.
L’accesso all’Oasi naturale è regolamentato: per ora è consentito esclusivamente attraverso visite guidate effettuate durante le giornate di apertura oppure su prenotazione.
Periodo di visita consigliato: settembre-ottobre; marzo-maggio.
Per saperne di più: www.ecosistema.it
Il Giardino botanico “NOVA ARBORA” (10,7 Km)
È nato a partire dal 1987 dalla passione dei proprietari che, con fatica ed abnegazione, hanno cercato di superare, in ogni stagione i problemi e le esigenze di qualsiasi pianta coltivata, nel rispetto dei metodi biologici e naturali.
Nel giardino sono state ri-naturalizzate piante autoctone, comprese alcune che fanno parte della “lista rossa” delle piante a rischio, ed altre esistenti in località italiane. Il giardino è strutturalmente basato sulla suddivisione delle piante nei propri specifici habitat. Questo ha permesso la creazione di Habitat come: la roccera; lo stagno; la torbiera; il felceto; le piante aromatiche ed officinali; le piante mediterranee; le piante alpine; l’orto didattico (“orto delle delizie”); l’orto dei “veleni”;
E’ aperto alle visite degli appassionati da marzo ad ottobre, con esclusione del mese di agosto. Il periodo consigliato per godere appieno di una abbondante fioritura è quello che sta nel periodo tra il 15 aprile ed il 10 luglio.
Le visite al giardino sono gradite ed organizzate, previo accordo al numero telefonico 051 847581.
Vi è la possibilità di approfondire le conoscenze: sulla flora protetta in ambito regionale e sulle essenze aromatiche ed officinali e sulla flora tipica del contrafforte pliocenico.
La Vite del Fantini (11,5 Km)
La più recente storia del suo vitigno risale al 1964, quando Luigi Fantini, studioso e fotografo di antiche dimore, scoprì in queste colline un ceppo di ben 120 centimetri di circonferenza con uno sviluppo del filare di trenta metri.
La vite che era appoggiata a un olmo, entrambi ultracentenari, è sopravvissuta alla infestazione di fillossera che ha distrutto alla fine del 1800 gran parte della viticoltura europea.
Fantini scattò le foto e tracciò l’iniziò della storia, ma solo dopo trent’anni fu Stefano Galli un volontario della Lipu a ritrovarla in uno stato disastroso, quasi sotterrata, e a prendersene cura.
Una opera di riabilitazione difficile e complicata perché era soffocata e intrecciata da rovi, piante infestanti, nidi di formiche, ma il salvataggio è stato compiuto e “il vitone” come veniva chiamato dagli anziani che ritenevano potesse risalire al seicento, ha generato nuova linfa.
Infatti, Galli crea due nuove talee e sottopone l’uva in visione ad Alessandro Galletti e la figlia Cristiana del Podere Riosto che attivano subito i propri tecnici. Nel 2004 iniziano gli innesti in campo e coinvolgono i centri di ricerca per caratterizzare e riconoscere legalmente il vitigno.
Dopo diversi studi si è ottenuta nel 2009 la registrazione nel Registro Italiano Vigneti con il nome di “Vite del Fantini”.
Oggi l’Azienda Podere Riosto produce 2 vini con uvaggi ricavati da questa antica pianta: “Vecchio Riosto” e Spumante Rosè “For You”.
I giardini del Casoncello (13,8 Km)
I giardini del Casoncello sono un piccolo capolavoro di botanica e di arte, frutto della cura e dell’amore della proprietaria, Gabriella Buccioli che, da sola, è riuscita a trasformare il piccolo podere di famiglia, abbandonato da decenni, in un luogo affascinante e suggestivo, dove è possibile ammirare centinaia di specie botaniche, sia comuni che rare.
Aperti al pubblico dal 1996, i Giardini si compongono di varie “situazioni vegetali” (prato misto, orto-giardino, bosco-giardino, giardino delle erbe, giardino frutteto, siepi miste, bordure di erbacee perenni, zona d’acqua, giardino roccioso) articolate in una serie di piccoli giardini e spazi più ampi, che creano un’alternanza di situazioni affascinanti e mutevoli.
I giardini sono anche un luogo di diffusione e di conservazione di fiori e piante spontanee locali, che crescono, senza sfigurare, insieme a piante rare o “auliche” in un ambiente di tipo apparentemente informale e spontaneo, entro spazi costruiti con sapiente gusto artistico e pittorico.
Le visite guidate primaverili e autunnali propongono un approccio plurisensoriale del giardino: non solo visivo, ma anche tattile e olfattivo. Foglie morbidissime o rugose, fiori, cortecce e radici che emanano profumi inebrianti o odori acri, pungenti… L’origine e la storia di questi giardini sono ora raccontate in un libro, dal titolo suggestivo, quanto veritiero “I giardini venuti dal vento – Come ho costruito il mio giardino secondo natura” (edizioni Pendragon).
Parco regionale dei Laghidi Suviana e Brasimone (48 Km)
Il parco si estende nel settore centrale della montagna bolognese, intorno a due ampi bacini realizzati a partire dai primi del Novecento a scopo idroelettrico. Dal crinale la dorsale formata dal monte Calvi (1.283 m s.l.m.) e dal monte di Stagno si prolunga separando le valli dei torrenti Brasimone e Limentra di Treppio, principali immissari dei due laghi. Boschi misti di querce, faggete e rimboschimenti di conifere rivestono quasi per intero i versanti e le arenarie dei principali rilievi nella parete occidentale della dorsale e a valle del bacino del Brasimone, formando lo spettacolare fronte dei Cinghi delle Mogne.
Nel parco è possibile osservare gole, radure e attraversare boschi misti composti da faggeti, querce, e rimboschimenti di conifere che rivestono i versanti e le arenarie dei principali rilievi nella parete occidentale della dorsale e a valle del bacino del Brasimone, formando il bellissimo fronte dei Cinghi delle Mogne. Recandosi sulle cime più alte si possono osservare versanti ripidi, coperti di boschi mentre nelle quote inferiori i versanti diventano meno ripidi. La scarsa frequentazione di questi luoghi da parte degli uomini ha favorito la presenza della fauna selvatica, tra cui spiccano per importanza i cervi che si calcoli siano più di trecento ai quali vanno ad aggiungersi caprioli, daini, cinghiali. infatti nei mesi di settembre e ottobre, è l’area ove è più facile sentire i suggestivi bramiti in tutto il versante appenninico emiliano. Da non trascurare l’importanza storica del parco, infatti i richiami del medioevo sono ben visibili in queste zone, lasciando tracce nei borghi come Bargi, Baigno, Badi e Stagno. Particolarmente affascinante è il borgo di Chiapporato, ormai in abbandono, con le belle case in sasso sovrastate dal ripido versante del monte Calvi.
La diga del Brasiamone
Il progetto dell’invaso, presentato il 24 aprile 1906 al Genio Civile, è dell’ing. Fausto Baratta. La diga, alta 35 metri, è del tipo a gravità ed è stata costruita con pietrame del luogo. E’ opera dell’ing. Angelo Omodeo, all’esordio di una luminosa carriera di “mago delle acque”. Il materiale principale utilizzato è la pietra lavorata dagli scalpellini di Montovolo, preferita in questo caso al cemento armato. Coerente alle sue idee socialiste, Omodeo applica qui, per la prima volta in Italia, la giornata lavorativa di otto ore.
Parco del Corno alle Scale (75,6 Km)
Si tratta di un parco di crinale, la cui importanza naturalistica è legata a molteplici emergenze, dalle singolarità geologiche e mineralogiche, alle presenze floristiche e faunistiche o agli elementi paesaggistici suggestivi (come ad esempio le spettacolari Cascate del Dardagna o quelle del selvaggio Orrido di Tanamalia). L’area protetta tutela un prezioso territorio montano, nel quale si ergono alti e maestosi i rilievi da cui originano le valli dei torrenti Dardagna e Silla. L’imponente dorsale del Corno alle Scale (1944 m), la cima più alta del Parco e di tutto l’Appennino Bolognese, costituisce l’asse centrale dell’Area protetta; essa prosegue a Nord nel Monte La Nuda (1828 m), mentre verso Est, a dominare la Valle del Silla, si staglia il Monte Gennaio (1812 m). A ridosso dei due principali centri abitati, Lizzano in Belvedere e Vidiciatico, troviamo rispettivamente la boscosa propaggine del Monte Pizzo (1194 m) e il Monte Grande (1531 m). I versanti, che presentano caratteristiche molto diverse nelle due valli, sono in gran parte ammantati dai boschi di faggio che alle quote più alte lasciano il posto al mirtillo ed alle praterie sommitali. Adagiati lungo le pendenze meno aspre dei versanti o incastonati dove i crinali secondari si risolvono con maggiore dolcezza, caratteristici borghi montani oggi divenuti apprezzate mete turistiche conservano edifici religiosi, abitazioni e altri elementi tipici dell’architettura di montagna. La varietà degli ambienti e la complessità del paesaggio, nel quale si alternano praterie d’alta quota, boschi, zone coltivate, impluvi e spartiacque favorisce un’estrema ricchezza floristica (oltre 1000 specie), con numerose entità appenniniche rare dalle magnifiche fioriture, di cui alcune, caratteristiche dei rilievi alpini, raggiungono nel Parco il loro limite meridionale di distribuzione. Ne sono un esempio la genziana purpurea e la splendida aquilegia alpina, dai grandi fiori azzurri. I boschi naturali, i castagneti da frutto, le faggete e i rimboschimenti di abeti e pini regalano in ogni stagione uno spettacolare scenario multicolore. Il contenuto impatto dell’uomo permette d’altra parte la presenza di una fauna tra le più interessanti in Italia. Nel Parco è possibile, con un po’ di fortuna, l’incontro con i timidi caprioli, i daini, i mufloni e numerosissime specie di uccelli, tra cui la maestosa aquila reale. Le estese superfici boscate costituiscono inoltre rifugio per uno degli animali più rari e affascinanti della fauna italiana, da qualche anno tornato ad abitare i nostri monti: il lupo, oggi più che mai segno evidente di un ritrovato equilibrio ambientale.